A due mesi dall’inizio della guerra capita spesso di essere catapultati, in attesa che qualcuno si decida a ricercare la pace, in un’assurda situazione altamente schizofrenica. Da una parte veniamo costretti, attraverso le immagini martellanti dei telegiornali, alla contrizione, alla vergogna, al dolore causato dalla vista di morte ovunque, una morte ieri dovuta alla pandemia, oggi alla guerra sul confine russo-ucraino, dall’altra parte, però, veniamo richiamati subito dopo alla solita vita frenetica e spensierata.
Lo switch, da una condizione di tristezza assoluta e strappalacrime all’altra di bruta trivialità consumistica e perlopiù volgare, dura, in effetti, il tempo di uno spot televisivo, di quelli che ormai vengono inseriti all’interno degli stessi telegiornali e che ci catapultano in luoghi ideali, rasserenanti e utopici, in cui tutte le angosce vengono sospese, comprese quelle quotidiane contro le macchie sui panni, la caduta dei capelli e delle protesi, l’incontinenza senile.
Ma qual è l’effetto di questa schizofrenia indotta dal ritmo imposto dalla televisione a chi, effettivamente, trova nell’appiattimento del mezzo e dello strumento del televisore un animale virtuale da compagnia?
È ovvio che il condizionamento televisivo, con tutto il suo svariato palinsesto, fatto di immani tragedie e subito dopo di facezie esilaranti, quiz a premi e improbabili incursioni nella vita di sedicenti e improvvisati VIP in completa decadenza fisica e mentale, impedisce di cogliere di fatto l’entità di ciò che sta accadendo in questi giorni.
L’escalation di violenza che la guerra russo-ucraina sta generando oggi, purtroppo, non sarà senza conseguenze domani, così come la guerra stessa, per come oggi si manifesta sotto i nostri occhi, non è che il risultato di una logica che ha trascurato colpevolmente la ricerca della pace negli anni passati, almeno dal 2014, da quando la richiesta di indipendenza da parte del Donbass è stata ignorata non solo dall’Ucraina, ma anche dall’Unione Europea, che avrebbe dovuto anticipare i venti di guerra in casa propria e non lasciare che le esercitazioni militari NATO esacerbassero il clima.
Sfugge, in sostanza, in questa schizofrenia indotta dalla narrazione mediatica la portata e il significato profondo di ogni guerra, di ogni violenza perpetrata ai danni dei corpi e delle menti degli uomini e delle donne. E sfuggono, con maggior gravità, in fondo, i moventi profondi delle stesse controversie che animano i conflitti armati oggi come ieri. È la stessa narrazione mediatica che, nei frangenti in cui bisogna essere tristi, ma al tempo stesso informati sui fatti, spinge emotivamente a prendere posizione in favore di uno o dell’altro.
Quello che sfugge, in ultima analisi, è che, tuttavia, questo meccanismo malato e balordo spinge a prendere, emotivamente, posizione sempre, comunque e innanzitutto a favore della guerra.
Si tratta di prendere posizione a favore dell’Ucraina o della Russia, a favore di Zelensky o di Putin, della NATO o del residuato ideologico del Patto di Varsavia. E la cosa più aberrante è che chi cerca di argomentare a favore di una posizione diversa, chi cerca anche solo di argomentare, si accorge subito che nel dibattito pubblico il tertium non datur, non esistono alternative all’intruppamento generale.
Accade perlopiù, infatti, che chi si rivela un po’ più lento nel giungere a conclusioni, magari perché avrebbe bisogno di più elementi per valutare o perché abituato dalla sua professione a sospendere il giudizio (la famigerata epochè che esercitano i filosofi per mestiere) si trova innanzitutto ridicolizzato, ma subito dopo ricacciato, malgrado sé stesso, all’interno di quella polarizzazione di guerra, una polarizzazione intrisa e foriera solo di violenza e alla fine si finisce per diventare in uno schema ormai ricorrente filoputiniani, filorussi, antiucraini.
È capitato ieri ad Alessandro Orsini e Donatella di Cesare e oggi capita a Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, anche lui ricacciato a forza nella fronda di chi non vuole capire che la ragione è sempre e solo da una parte e il tertium non datur.
Ma perché, ci chiediamo, non va più di moda chiedere la pace? Perché, ci domandiamo attoniti, le donne e gli uomini non si schierano più, incondizionatamente, a favore della pace? Perché le cittadine e i cittadini devono essere costrette e costretti alla logica dicotomica di una scelta che è sempre una scelta a favore della guerra e non, invece, invitate e invitati ad accogliere, altrettanto incondizionatamente, le ragioni della pace?
Probabilmente, l’opera di semplificazione delle opinioni, obiettivo perseguito in modo nemmeno poi tanto celato dai media, polarizzando le posizioni dell’opinione pubblica intorno ad argomenti ritenuti cruciali, rafforza quel senso di aggressività naturale che hobbesianamente continua ad accomunare tutti gli uomini e le donne anche al di fuori dello stato di natura.
Intenti nei nostri personali affari, indottrinati e distratti dalla martellante propaganda divisiva che agisce come una religione manichea in ogni contesto sociale, abbiamo davvero finito col ritenere sacrificabile qualunque valore fondativo della società civile?
Osserviamo oggi, non senza sconforto, l’incapacità – per non dire impossibilità – di apprendere e quindi reclamare come diritto inalienabile la pace come condizione permanente del diritto internazionale.
Siamo così fintamente rassicurati nella schizofrenia dello switch televisivo che, allontanata nel ridicolo ogni immagine terrificante di guerra attraverso l’edulcorazione prodotta dalla pausa pubblicitaria, al punto da sembrare irrimediabilmente stupidi, non consideriamo il fatto banalissimo che è la pace il primo pilastro per l’effettiva sicurezza.
Come possiamo fare, dunque, per far capire che la pace, come ricordava Thomas Hobbes con l’affermazione «pax quaerenda est», un filosofo in realtà molto pessimista sulla socievolezza dell’uomo, è senza dubbio da preferire alla guerra?
Di Michele Lucivero e Andrea Petracca.
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a cura di Michele Lucivero
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