La decadenza e la disgregazione dell’Impero Carolingio nel IX secolo si ripercuotono sul Regno d’Italia e sul Veneto. Alla fine dell’Ottocento la regione è ricompresa nella Marca del Friuli, che ha come capitale Verona. (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr).
Decenni di guerre fra i più importanti marchesi d’Italia, ciascuno intenzionato a conquistare il titolo regale, hanno indebolito e frammentato il reame e impoverito le popolazioni. Berengario del Friuli è riuscito a ottenere, nell’898, l'investitura regale dalla dieta dei feudatari ma il suo potere è messo subito in crisi dalla invasione degli Ungari. Questa nuova calata di barbari avrà un effetto disastroso su Vicenza e sul suo territorio.
Gli Ungari invadono il Nord Italia nell’899
Gli Ungari, chiamati anche Magiari, sono una popolazione asiatica che, da circa un secolo, si sta spostando verso occidente. Sono bellicosi e spietati: “nell'anno 889 – scrive il contemporaneo abate benedettino Reginone di Prüm - la ferocissima gente degli Ungari, crudele più delle belve più crudeli, sconosciuta nei tempi passati, tanto da non venire neppure nominata, diedero l'addio alla loro terra e si misero in marcia alla ricerca di nuove sedi dove stabilirsi.
Dapprima si procurarono il sostentamento con la caccia e la pesca, ma poi presero a fare continue incursioni e scorrerie. In queste incursioni hanno sterminato migliaia di persone con le frecce, scoccate dagli archi con tanta abilità che è difficilissimo schivarle. Non vivono come uomini, ma come bestie. A quel che si dice, mangiano carni crude, bevono sangue, fanno a pezzi e poi mangiano il cuore dei prigionieri, non conoscono pietà.”
Nell’agosto dell’ultimo anno del IX secolo l’invasione degli Ungari dell’Italia avviene attraverso il consueto passaggio a nord est utilizzato dai barbari che li hanno preceduti. Valicano, infatti, le Alpi in Friuli e dilagano nella Pianura Padana. A questo punto entra in scena Vicenza, perché proprio nel suo territorio si combatte la battaglia finale fra gli invasori e l’esercito di Berengario, neo re d’Italia.
La battaglia della Brenta
Il luogo in cui si svolge la “battaglia della Brenta” il 24 settembre dell’899 non è stato identificato con certezza. Si parla, infatti, di Cartigliano o di Fontaniva (località che, comunque, fanno parte del vicentino pur essendone ai confini) anche se è accertato che si combatte in prossimità del fiume. L’uso dell’articolo femminile anteposto a Brenta non è frutto di errore, bensì della attribuzione storica (e tutt’ora usata oralmente) di quel genere non solo all’antico Medoacus major ma anche a gran parte dei fiumi veneti e friulani.
L’esercito di Berengario è di tre volte più numeroso rispetto all’armata ungara, che si è ricompattata sulla riva sinistra della Brenta e riunita alle truppe stanziate nel campo barbarico permanente. La inferiorità numerica degli Ungari è pareggiata, da parte loro, con una condotta astuta e utilitaristica del confronto. Prima temporeggiano e fingono di negoziare, poi attraversano di nascosto il fiume e attaccano il campo italico mentre i nemici stanno mangiando e non se l’aspettano. L’esercito di Berengario è massacrato, le cronache riferiscono di ventimila morti (dato sicuramente esagerato perché gli italici sono al massimo quindicimila). La via per l’invasione della pianura padana è spalancata.
L’invasione degli Ungari e Vicenza
Gli Ungari non assaltano le città cintate da mura perché non hanno armi da assedio né sono militarmente preparati a questo tipo di guerra. La loro azione devastatrice si esercita, quindi, sulle campagne e sui monasteri extra urbani.
Questo schema bellico si applica anche a Vicenza: le mura che proteggono l’abitato dissuadono dalla conquista della città i barbari che prendono di mira, invece, il monastero benedettino di San Felice e la chiesa adiacente.
L’insediamento dei frati dell’Ordine di san Benedetto è il più ricco della città grazie alle donazioni ricevute già in epoca longobarda e agli apporti fondiari che ne fanno il proprietario di una dote territoriale estesissima, in parte bonificata e coltivata. La antica chiesa, che ospita le reliquie del santo giustiziato a Aquileia nel IV secolo, è stata oggetto per secoli di beneficenza e offerte ed è, quindi, un bottino appetitoso per i pagani Ungari.
Il complesso religioso è distrutto e incendiato dai barbari e per settant’anni scompare dalla scena cittadina. Il danno è gravissimo non solo per il culto ma anche per la vita culturale di Vicenza, che ha nel cenobio sanfeliciano uno dei propri fulcri.
Il merito della ricostruzione della chiesa e del monastero va al vescovo Rodolfo. Il presule mette in atto un escamotage: cede al vescovo di Metz le reliquie dei santi Leonzio e Carpoforo, che sono a San Felice, per ottenere in cambio dall'imperatore Ottone I una donazione finalizzata alla ricostruzione.
Nel 983 è pronta la nuova Basilica e, al suo fianco, ritorna anche il monastero. Nello stesso anno Rodolfo concede ai benedettini un privilegium, uno dei pochi di cui sia rimasta testimonianza documentale, restituendo loro i possedimenti che erano andati dispersi a causa degli Ungari, cum famulis et decimis, e affida loro il governo del territorio e la bonifica delle aree acquitrinose. Il monastero è dotato di una torre di difesa.
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