Quel 31 maggio 1970 era domenica e io ero in Perù, a Lima. La terra cominciò a tremare. “La solita, abituale, scossa” pensammo. E invece no, era l’inizio di una tragedia immane. Un terremoto che durò qualche minuto distrusse intere regioni settentrionali del Perù.
Io ricordo il terrore che ho provato. La sensazione che, la scossa, non sarebbe più finita mentre la vita si stava avvitando in uno sgomento senza soluzione.
Io mi ricordo.
L’improvvisa calma appena terminata la scossa più forte. Il silenzio. L’assenza di uccelli in volo. Spariti.
Io mi ricordo.
I vivi per le strade che si abbracciavano. I volti, gli occhi senza più lacrime, la disperazione, le imprecazioni silenziose, quelle gridate e quelle appena accennate, le preghiere, le invocazioni. E le domande … Perché hai chiuso gli occhi, Dio? Dove si sarà scatenata la furia? Se a Lima è stato così lungo e forte, dalle altre parti cosa sarà successo?
Io mi ricordo le parole di mia madre. Infine vedo ancora nei miei ricordi i tristi sorrisi dei sopravvissuti. I segni d’intesa, la felicità di essere ancora vivi.
Poi cominciarono ad arrivare le notizie. A Lima i morti e i danni erano pochi. Ma là, al nord, chissà … si sapeva ben poco. Le comunicazioni erano interrotte, difficile capire qualcosa. Si potevano intuire, però, i presupposti di una catastrofe. Alla radio si susseguivano le richieste di sangue, si chiedeva, con la forza dell’imposizione, a tutti i medici di mettersi a disposizione e di presentarsi negli ospedali.
Verso sera si cominciò a conoscere. Dalla costa alla montagna, nel nord del paese, tutto fu travolto da un evento devastante e crudele. E nella valle tra le due catene di monti, là nel nord del paese, una pesante nuvola di polvere e tragedia copriva qualsiasi vista. Sotto, non si sapeva cosa fosse successo ma, certamente, nulla di buono.
Si venne a sapere, qualche giorno dopo, che paracadutisti si lanciarono con i primi aiuti (ognuno un carico di un quintale di generi di prima necessità) in caduta libera senza vedere la terra e che arrivarono nella devastazione.
Io mi ricordo.
La città di Yungay e la valle di Ancash sommerse dal fango della valanga di ghiaccio che si staccò dalla cima dello Huascaran e precipitò a valle creando un’onda di terra, acqua e sassi che uccise, in pochi secondi, decine di migliaia di persone.
Io mi ricordo.
I panorami che avevo visto solo un anno prima trasformati, dalla potenza di quel terremoto, in desolazione e morte.
E, poi, i morti, i morti … un crescendo spaventoso. Alla fine se ne contarono oltre 70.000.
E mi ricordo la sensazione di impotenza che prese ognuno.
Si, io mi ricordo e anche se sono passati 50 anni, quell’esperienza mi è rimasta dentro. Ha fatto parte di me e di tutta la vita che mi porto appresso. L’ha dolorosamente plasmata.
Ma io mi ricordo anche la dignità di una nazione e di un popolo considerati “miserabili” e “cosa loro” dai potenti del mondo.
Io mi ricordo la solidarietà delle nazioni che aiutarono quella che sarebbe diventata per sempre la mia seconda Patria e che stava rialzando la testa dopo secoli di sudditanza (era il periodo del governo rivoluzionario del generale Velasco Alvarado).
E mi ricordo che i primi ad arrivare nei luoghi del disastro furono i medici e il sangue cubani. Perché a Cuba si organizzò la raccolta di sangue (necessario per le migliaia di feriti). Ricordo che in quel sangue c’era anche quello di Fidel Castro. Ricordo che tra Perù e Cuba allora non c’erano relazioni diplomatiche e so che il popolo cubano per il suo aiuto, non chiese nulla in cambio. Aiutò il Perù fino a quando la situazione non si stabilizzò.
Io mi ricordo che fu Cuba, che già allora era sotto embargo statunitense, ad arrivare subito e a dare la solidarietà tangibile dimostrando che il governo e il popolo peruviano non erano soli. La vera solidarietà che può dare un popolo povero, ricco soprattutto di umanità e fratello di chi soffre e ha bisogno di aiuto.
Io mi ricordo che ci si sentiva uguali mentre troppi e per troppo tempo avevano considerato il Perù il cortile di casa e il suo popolo una massa di sudditi senza diritti. Territorio e persone da sfruttare.
E mi ricordo che ci gli aiuti arrivarono da tutto il mondo, che da Cuba arrivò sangue e supporto medico e dai paesi più ricchi arrivò soprattutto finanziamenti e prestito di denaro che si sarebbero dovuti restituire in varie forme. Un modo come un altro per ricavare profitto (piccolo o grande) dalla tragedia.
Questo io mi ricordo e nessuno e niente me lo possono far dimenticare.
E allora vi dico, cari signori, che oggi sto vedendo (con altre proporzioni e in un diverso periodo storico) la stessa abnegazione da parte di un governo e un popolo che ci sono amici a prescindere perché credono nella solidarietà tra le genti.
Perché questa è la ideologia di Cuba, questa è la sua Rivoluzione. La vedo negli occhi e nella serietà dei medici e degli infermieri che sono arrivati in Italia per aiutarci nella lotta contro l’epidemia di Covid-19. La sento nelle parole che i compagni cubani pronunciano, nelle loro chiare risposte alle domande ambigue poste nelle interviste.
Io, oggi, ricordo e respiro la stessa solidarietà che ho visto in quel 1970 in Perù.
Quindi, a chi denigra lo sforzo dei cubani che sono venuti in nostro aiuto, a chi li umilia e li offende, voglio dire: siete voi i “miserabili”, voi che non credete che si possa dare aiuto senza voler nulla in cambio. Siete voi gli “ignoranti” perché non capite (non ce la fate, è più forte di voi) che la vera solidarietà non chiede nulla in cambio. Non può e non deve farlo pena diventare qualcosa di diverso, inutile e poco nobile. E che questo abbraccio che i compagni cubani ci stanno dando e che voi non riuscite a concepire è frutto di un sistema diverso da quel capitalismo trionfante che ci avvelena corpo e mente ogni giorno. Questa, signori, è “la Rivoluzione”.