Il paziente è morto quindi il dottore è colpevole. Questo il ragionamento a base della maggior parte delle azioni risarcitorie per malpractise medica che nel 95% dei casi si concludono con l’assoluzione. E non deve stupire perché il professionista ha un’obbligazione di mezzi e non di risultato ed è responsabile solo per il carente e/o omesso rispetto delle procedure cui deve uniformare il proprio operato.
Mutatis mutandis quanto sopra vale parimenti per le azioni risarcitorie nei confronti delle società di revisione, oggi attenzionate dagli azionisti delle ex banche popolari venete i cui ultimi bilanci – pacificamente falsi – erano corredati da relazioni senza rilievi delle società di revisione [rispettivamente la KPMG per la BPVi, la PwC per la Veneto Banca].
Se il cammino è tortuoso e accidentato, la meta – ovvero il congruo risarcimento – è raggiungibile – ma solo da escursionisti esperti, come di seguito argomentato e come l’evoluzione del contenzioso già avviato presso vari Tribunali sta confermando.
Infatti, l’equivalenza bilancio falso = responsabilità del revisore non regge in giudizio, dove l’attore, cui fa capo l’onere della prova, deve indicare le procedure violate dal Revisore che, se correttamente osservate, gli avrebbero consentito di individuare gli errori di bilancio. Trattasi di una dimostrazione caratterizzata da estremo tecnicismo poiché in discussione non sono i principi contabili [noti come IAS/IFRS, da molti commercialisti conosciuti e utilizzati] ma gli ISA [International Standard of Accounting] e, in particolare, il set di principi espressamente elaborati per gli istituti bancari, conosciuti e applicati da pochi addetti ai lavori.
Le davvero rare condanne al risarcimento delle società di revisione, nonostante l’indubbia superficialità e spesso connivenza con il management che ne contraddistingue l’operato, dipendono proprio da errori marchiani commessi nell’impostazione della richiesta risarcitoria da legali tuttologi che si avventurano in territori loro ignoti e, parimenti, dalla comunque elevata difficoltà di provarne la responsabilità.
L’attore che abbia superato l’aspetto tecnico, ovvero abbia provato la cattiva esecuzione dell’attività di revisione, deve affrontare due ulteriori difese relative a: (i) nesso di causalità; (ii) quantificazione del danno. Il primo tema riguarda la dimostrazione che l’investitore non avrebbe acquistato/sottoscritto le azioni a fronte di una relazione con rilievi, la seconda attiene all’incidenza causale della cattiva relazione sulla produzione del danno dell’investitore cui hanno indubbiamente concorso anche amministratori e sindaci della banca, nonché, per mancati controlli, la Consob e la Banca d’Italia.
Trattasi di argomentazioni difensive non del tutto infondate che, se non opportunamente anticipate e contrastate, potrebbero rappresentare intralci non irrilevanti col rischio, per l’attore, di ottenere importi modesti a fronte degli ingenti sforzi profusi.
Non tutto il male viene, peraltro, per nuocere.
Tali percorsi impegnativi rappresentano, infatti, la garanzia di ottenere il pagamento per chi, adeguatamente assistito, ottenga una sentenza di vittoria. E’ pacifico che, ove la declaratoria di responsabilità fosse agevole da ottenere, a fronte di condanne a risarcimenti miliardari, le società di revisione finirebbero fallite. Laddove per chi come la PwC e la KPMG fattura annualmente oltre seicento milioni di euro ed è coperta da consistenti polizze assicurative, un centinaio di milioni di euro da ripartire tra gli investitori azzerati capaci di arrivare fino in fondo, è una somma certo alla portata. Tutt’al più, i rispettivi Partner, il cui grado di superficialità è in genere proporzionale al livello di saccenza, per un anno rinunceranno ai ricchi bonus che sono soliti auto-attribuirsi.