«Gli adolescenti sono il futuro della madrepatria. Proteggere la salute fisica e mentale dei minorenni è un interesse vitale per il popolo, legato alla crescita delle nuove generazioni nell’epoca del ringiovanimento nazionale». Messa così, si potrebbe anche trattare di un preambolo necessario e condivisibile per ogni sorta di riforma radicale della scuola a partire da un’analisi della situazione reale della società per stabilire poi una progettualità che dia un peso adeguato alla crescita dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze in vista della costruzione di una civiltà migliore.
Il punto è che la Cina fa seguire a queste parole la limitazione dell’accesso ai videogiochi per tutti i minori di 18 anni a sole tre ore a settimana (un’ora al venerdì, sabato e domenica, dalle 20 alle 21) e definisce l’industria del passatempo online «oppio dello spirito», espressione che era stata già utilizzata nel 2017 dalla direzione del Partito Comunista Cinese per esortare i dirigenti a non presenziare alle festività natalizie e a vietarle per gli studenti.
Che ci sia dietro, come sostengono alcuni, l’intento da parte della Cina di colpire i giganti dell’industria informatica ci può anche stare, ma, in fondo, non è del tutto sbagliata l’idea di limitare l’accesso ai dispositivi elettronici e ai videogiochi alle ragazze, ma soprattutto ai ragazzi, che altrimenti passerebbero le giornate intere attaccati alle console.
Certo, sono ormai diverse decine di anni che esistono console di tutti i tipi, da quando Atari, Sega e Nintendo, nei meravigliosi anni ’80 del boom economico, misero a disposizione di tutte le famiglie le famigerate scatolette con cui i ragazzi e le ragazze potevano trascorrere molto del loro tempo libero, proprio mentre si diffondevano quelle mastodontiche enciclopedie domestiche in cui i nostri studenti e le nostre studentesse impiegavano diverse ore a cercare le parole più disparate, per accontentarsi poi, come spesso accadeva, di solo un trafiletto di appena cinque righe.
Il punto è che gli effetti di certe cattive abitudini, soprattutto se prolungate nel tempo, si vedono, purtroppo, a lungo termine e, quindi, solo dal 2022, quando sarà adottato l’ICD-11, cioè l’undicesima revisione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del manuale internazionale dei disturbi e delle malattie, sarà possibile parlare di un gaming disorder per riferirsi alla dipendenza da videogiochi come malattia mentale da curare con adeguati trattamenti.
La Cina aveva deciso, in verità, già dal 2019 di frenare, a colpi di prese di posizione etiche con effetti politici immediati, questo fenomeno e la decisione di qualche giorno fa interviene a inasprire le limitazioni sull’uso dei videogames, che rischiano di mettere a repentaglio la salute individuale e sociale di numerosi ragazzi, ma ormai anche di ragazze.
Del resto, la Cina ha ben presente il fenomeno che il vicino Giappone vive a partire proprio da quei meravigliosi anni ’80, cioè l’hikikimori, vale a dire la tendenza ad allontanarsi dalla vita sociale per rifugiarsi in casa, o nella propria camera, e trascorrere ore e ore davanti ai videogames, spesso invertendo il ritmo sonno-veglia fino ad andare incontro alla totale alienazione mentale.
Ma, evidentemente, la Cina non è così liberale come il Giappone e, anziché dare ampio spazio alla diffusione delle malattie, mentali e non, le cui cure poi ricadrebbero sulla sanità pubblica, ricorre a rimedi drastici…e questo l’abbiamo visto anche in relazione alle misure di contenimento del contagio da Covid-19. E, allora, il punto è: chi decide cosa è meglio per la collettività?
La Cina, come ben sappiamo, è uno Stato a partito unico e a vocazione collettivistica e ciò che distingue in maniera sostanziale un sistema statale liberale da un sistema come quello cinese è la diversa concezione di libertà che essi tendono a sostenere. Si badi bene che eviteremo di definire l’uno o l’altro con il termine di “regime”, a causa della difficoltà di individuare con tale parola un riferimento significativo chiaro e distinto sul tipo di governo, dal momento che esso ha a che fare con qualunque tipo di organizzazione degli apparati politici e territoriali di uno stato, ma non ci dice nulla della sua vocazione.
Se vogliamo proprio stabilire una differenza tra i modi di organizzare la vita dei soggetti in un contesto politico, allora bisogna soffermarsi su come gli Stati intendono generalmente il rapporto tra libertà e regole. Un sistema politico liberale, in linea molto generale, sostiene un concetto di libertà focalizzato principalmente sull’idea di autonomia del soggetto, di assenza di condizionamenti che possano pregiudicare la possibilità di scegliere tra diverse opzioni in base ad un determinato orizzonte valoriale ed etico di vita scelto. Questo tipo di indipendenza va garantito, come sostiene il filosofo tedesco Jürgen Habermas[1], al singolo individuo, non alla collettività oppure ad una particolare cultura, all’interno della quale l’individuo deve restare libero di aderirvi o meno.
Più un regime tende ad essere liberale, dunque, più si fa chiara la tendenza a stigmatizzare l’imposizione di regole da parte dello Stato, fino a ipotizzare soluzioni come lo Stato minimo di Robert Nozick[2], il quale vorrebbe ridurre drasticamente l’intervento regolativo dello Stato per lasciare i soggetti liberi di aderire ciascuno ad un deliberato concetto pluralistico di buona vita. Al contrario, più un regime tende ad avere vocazione monoculturale e collettivistica, più si concentra sull’imposizione di una serie di regole, assunte da un determinato modello di buona vita, che devono servire per raggiungere una sorta di uguaglianza sostanziale dei soggetti, ma nel fare ciò, annulla di fatto la possibilità del singolo di scegliere liberamente, così come annulla la stessa possibilità che possa esistere un pluralismo culturale.
Fin qui tutto il discorso, almeno sul piano teorico, è abbastanza lineare: l’assenza totale di regole mette a repentaglio la possibilità stessa di esperire la libertà nel pluralismo, così come troppe regole imposte dallo Stato non permettono ad un soggetto di essere veramente libero, sicché, come diceva Aristotele, in questi casi occorre ricercare quella posizione mediana, il giusto mezzo, mesotes, che riesca ad evitare che le virtù diventino vizi. L’Occidente ha pensato bene di articolare il giusto mezzo attraverso forme deliberative da parte del popolo secondo il principio di maggioranza.
E, tuttavia, anche in questo caso le cose non sono poi così lineari, perché nella democrazia liberale rappresentativa può sempre capitare che una minoranza monoculturale, ma abbastanza organizzata e rumorosa, possa essere molto più influente di una maggioranza pluralistica, ma silenziosa e disorganizzata. Ciò non è solo evidente dall’esito delle votazioni in Occidente, dove ormai il partito degli astenuti e delle schede nulle raggiunge la maggioranza, ma non ha alcun rappresentante in Parlamento per esprimere il proprio modello di libertà, come è emerso anche dalle ultime elezioni in Italia; ma è ancora più evidente se si prende in considerazione l’influenza che esercitano associazioni come il MoIGe (Movimento Italiano Genitori), una cricca di circa 80.000 adulti che, con l’intento di prendersi cura delle nuove generazioni, trascorrerebbe tutta la giornata a guardare la TV per decretare ciò che va bene e ciò che è deleterio per i nostri figli e le nostre figlie.
Dopo il fotografo Oliviero Toscani e il cartone Sailor Moon, con una protagonista giudicata dall’orientamento sessuale «abbastanza confuso», nel mirino del MoIGe è finito anche il “porca puttena” del nonno italiano, Lino Banfi, nello spot della TIM, la quale afferma, però, di non aver ricevuto alcuna segnalazione dall’authority a seguito della denuncia del MoIGe, sebbene, in verità, lo spot sia scomparso dai nostri schermi.
Ecco, il bello di vivere in una democrazia liberale, tra le altre cose, è che in alcuni casi si può anche pubblicamente dichiarare di essere più in sintonia con delle regole cogenti adottate da sistemi non liberali, piuttosto che con la moral suasion di potenti e rumorose minoranze all’interno di sistemi liberali…dichiarare il viceversa in una dittatura sarebbe un po’ più problematico!
[1] J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2008.
[2] R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, Il Saggiatore, Milano 2008.
Qui troverai tutti i contributi a Agorà, la Filosofia in Piazza
a cura di Michele Lucivero
Qui la pagina Facebook Agorà. Filosofia in piazza
Sei arrivato fin qui?Se sei qui è chiaro che apprezzi il nostro giornalismo, che, però, richiede tempo e denaro. Se vuoi continuare a leggere questo articolo e per un anno tutti i contenuti PREMIUM e le Newsletter online puoi farlo al prezzo di un caffè, una birra o una pizza al mese. Grazie, Giovanni Coviello Sei già registrato? Clicca qui per accedere |