In un precedente articolo di Agorà. La filosofia in piazza ci siamo occupati dello stato di salute della famiglia moderna, sostenendo che, a fronte di tutte le posizioni che la vogliono in fin di vita, questa istituzione se la passa benissimo e che, tutto sommato, il suo perdurare indomito non è che il riflesso della vittoria sociale dei valori piccolo borghesi, anche tra le persone dello stesso sesso.
Tuttavia, c’è un altro aspetto interessante dell’evoluzione dell’istituzione della famiglia sul quale occorre soffermarsi. Si tratta di riflettere sul passaggio da un orizzonte, per così dire, di naturalità, sancito anche dall’art. 29 della nostra Costituzione, quando afferma che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», ad un orizzonte costruito, artificiale, cosiddetto “funzionale”.
Se in origine, infatti, la famiglia borghese era naturale nella misura in cui elaborava un corredo valoriale da tramandare in maniera piuttosto spontanea ai figli mediante l’educazione, di cui si facevano carico le madri, lasciando ai padri la funzione autoritaria, è accaduto con il passare del tempo che la fuga delle donne dal focolare domestico, elemento di liberazione della e dalla famiglia, ha comportato l’attribuzione della funzione educativa a figure terze.
Si sono affacciati così sulla scena dell’educazione esperti dei processi di crescita intellettuale e morale dei soggetti, in grado anche di determinare e di analizzare con terminologia scientifica, giacché l’orizzonte delle scienze umane del Novecento è stato quello di competere con le scienze esatte sul piano della scientificità, i fatti sociali, culturali e storici. Si è giunti così ad attribuire alla famiglia un profilo “funzionale” oppure “disfunzionale”, in cui si ritiene che il soggetto cresca con più o meno problemi all’interno dell’una o dell’altra tipologia.
Si tratta, in realtà, di definizioni che mescolano inopportunamente dettagli culturali e politici con pretese scientifiche, giacché si cerca di elevare a modelli universalmente validi schemi di comportamento di soggetti storici, che vivono in specifici e determinati contesti sociali. Per fare un esempio: la definizione di “bambino ribelle”, in relazione ai profili di uscita da una famiglia disfunzionale è evidentemente il risultato di una valutazione politica solo nella misura in cui la famiglia funzionale produce, di converso, il profilo del “bambino rispettoso”. In altre parole, si tratta di una connotazione specifica del linguaggio, che al primo attribuisce una certa problematicità sociale e al secondo spiana la strada nella società in quanto “bambino educato e conformista”.
Il punto è che la specializzazione raggiunta nella nostra società, da un lato, e l’abdicazione dei genitori dall’esercizio della funzione educativa all’interno della famiglia, dall’altro, proprio a causa della rincorsa alla specializzazione professionale mediante il lavoro e l’autonomia, fa sì che per comprendere lo stato in cui versa il processo di crescita dei nostri figli ci si debba rivolgere ad esperti, i quali sono tali, e di conseguenza assolutamente autorevoli, in virtù di un percorso istituzionalizzato che gli ha conferito il titolo e il mandato per esercitare la professione.
Occorre soffermarsi brevemente su questo passaggio per comprendere dove stiamo andando come società, giacché si tratta di processi che generalmente diamo per scontati, ma è chiaro che un soggetto che riceve mandato da una istituzione, in cui sostanzialmente crede, e che l’ha legittimato nella sua professione, non può che essere funzionale, a sua volta, alla legittimazione di quella istituzione che lo ha giudicato “esperto”. Tale istituzione, di fatto, continua a mantenere quei professionisti funzionali in quei ruoli sociali di tutto rispetto, investendoli al tempo stesso del compito di essere garanti e prosecutori di quell’ordine sociale e culturale costituito.
Forse un esempio potrebbe essere più esplicativo nel rendere l’idea del funzionamento di questo assetto sociale caratterizzato dalla professionalizzazione funzionale: durante il regime fascista, che è durato ben vent’anni, cioè quelli che bastano ad incidere profondamente nell’educazione di almeno due generazioni, il profilo di “ribelle” (disfunzionale) era considerato il prototipo dell’oppositore politico, del sostenitore della democrazia, delle libertà. Ora, è chiaro che tutta l’educazione, cosiddetta “funzionale”, che, nella fattispecie, era riconducibile grossomodo all’impostazione pedagogica e storicistica del filosofo Giovanni Gentile, lavorava per costruire il modello di “bambino conformista”, rispettoso delle regole del regime fascista.
Dopo la caduta del fascismo accadde che le definizioni, i lemmi linguistici “funzionale” e “disfunzionale”, come anche “ribelle” e “conformista”, rimasero, ovviamente, ma si svuotarono del significato attribuito precedentemente e andarono incontro ad un processo di risemantizzazione ad opera di nuovi esperti, diversi da quelli del precedente assetto politico e sociale.
All’indomani della caduta del fascismo la conseguenza sulle persone di tale operazione di risemantizzazione fu drammatica e deleteria, giacché i soggetti si trovarono a rivestire ruoli funzionali o disfunzionali a parti invertite, dando l’avvio ad un’altra manche di quel gioco che un tempo i ragazzini facevano nei cortili sotto casa, cioè “guardie e ladri”, laddove a ritmi alternati ci si allenava alla realtà, rivestendo ora il ruolo del “ladro/ribelle”, ora quello della “guardia/rispettosa”.
Ecco, sarebbe il caso di ricordare agli esperti che il loro esercizio professionale, come tale, non può che essere storico, che tutti i discorsi legati ai processi umani, compresi quelli relativi all’evoluzione dei soggetti, alla formazione di agglomerati più o meno istituzionali, come la famiglia, non sono che processi storici, in cui la cultura e i valori giocano un ruolo fondamentale nella costruzione di prospettive future.
Per una questione di onestà intellettuale, quindi, sarebbe sempre il caso di riferire i profili di famiglia “funzionale” e “disfunzionale” a contesti storici e sociali ben definiti e non considerarli come categorie assolute, altrimenti si fa passare la colpevole compartecipazione ai processi di conservazione sociale come presunto rigore scientifico, che significa, né più né meno, che essere bollati come intellettuali organici al potere costituito, come ammoniva Antonio Gramsci dal carcere…nella condizione di ribelle: «Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore»[1].
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 1551.