Ne scrivo tardi. In più da fan, inconsolabile per aver perso, in pochi mesi, due fari costantemente accesi sulla mia storia personale – e con ciò, di fatto, elimino da questo breve scritto ogni residua ambizione di obiettività.
«Ogni storia ha una sua vita e ogni vita ha mille storie. La mia vita è stata musica che accade, incontri di popoli, magie, racconti, mille soli splendenti e vento in faccia. Non ho rimorsi, non ho rimpianti, la mia vita è stata tutta un’avventura. Finalmente, dopo tanto inutile errare, ho trovato la donna perfetta e l’ho sposata (…). Sono padre felice di un figlio strepitoso, il migliore che si possa desiderare (…). Ho goduto abbestia con i migliori compagni potessi avere, la mia Banda del cuore (…). In questo grande girotondo saluto e ringrazio tutti quelli che mi hanno amato e tutti quelli che ho amato (…). Un abbraccio che circonda! Aloha!!!». Con queste parole il 14 febbraio Enrico Greppi, in arte Erriquez, voce, anima e sudore della Bandabardò, prendeva congedo dai suoi inseparabili compagni di viaggio, e anche da noi.
Forse più noto al grande pubblico, il 18 maggio anche Franco Battiato ha lasciato questo ciclo di vita. In un’intervista[1] rilasciata al Fatto Quotidiano nel 2009 dichiarava: «Vede, sto bene con me stesso. Vivo in questo posto meraviglioso sulle pendici del Mongibello. Dalla veranda del mio giardino osservo il cielo, il mare, i fumi dell’Etna (…). Un’oasi. Poi purtroppo rientro nello studio e accendo la tv per il telegiornale: ogni volta è un trauma. Ho un chip elettronico interiore che va in tilt per le ingiustizie e le menzogne». Parole che esprimono bene la capacità di Battiato di percorrere con le sue canzoni la totalità dei sentimenti umani, dall’atarassia estatica al profondo sdegno verso le bassezze umane.
Erriquez e Battiato. Due musicisti molto diversi, ovviamente, e ad accostarli qualcuno potrebbe gridare all’eresia di chi si sta accingendo a mescolare il profano e il sacro; ma, metto le mani avanti, questo semplice e personalissimo omaggio, nasce anche dal presupposto che il sacro, in effetti, esiste solo perché esiste il profano, e viceversa.
Due immagini: la prima di Erriquez, altissimo, un cilindro in testa, un pizzetto chilometrico sotto il mento e un sorriso contagioso, in grado di arrivare dritto al cuore di chi lo ascolta; insieme alla sua Banda ha saltato sui palchi di tutt’Italia cantando le dame, i cavalier, l’arme e gli amori, i viaggi e gli incontri in un mondo alla fine rovesciato in cui a trionfare erano gli ultimi, i matti e i vagabondi, quelli che parlano alla luna, che lasciano ad altri gloria e noia e non vogliono denari, ma solo vino, allegria e calore delle mani.
La seconda immagine, di Franco: ha avuto molte vite artistiche Battiato, ma l’immagine di lui con indosso una semplice camicia bianca, gli occhiali e la barba lunga, seduto su un tappeto persiano ad incantare Baghdad in un concerto struggente e profetico, ha qualcosa di leggendario e ineguagliabile. Era il 1992 e a Baghdad c’era il regime di Hussein, Battiato accettò di suonare, una scelta radicale – una delle tante fatte durante la sua vita – perché, disse, «La musica prescinde da tutto, riunisce sul serio la gente, la musica è un’arte sublime, un importante momento di aggregazione»[2].
Due artisti unici e carismatici, accomunati, soprattutto, dall’aver saputo creare una sintonia fuori dall’ordinario con i cuori e le menti dei moltissimi ammiratori che li hanno progressivamente assunti a padri nobili dei modelli di vita che incarnavano con la loro opera artistica. Così, nei concerti della Bandabardò, finivi col credere che i fricchettoni potessero davvero raggiungere il potere e, in un tripudio di sorrisi dritti al cuore e alla mente, sentivi che lo sconosciuto, che salta e suda accanto a te, è tuo fratello; e, in quelli di Franco, credevi davvero di aver incontrato un maestro in grado di insegnarti com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire, ed eri certo che saresti riuscito ad arrampicarti per universi e mondi con atti di pensiero, per poi ridestarti, dopo avere viaggiato dentro il sonno, e difendere la povera patria offesa, sempre convinto che sì, cambierà… succederà…
Una finzione magica, certo, ma provo a dirlo senza giri di parole: il fatto di aver inciso in modo così iconico nella coscienza di intere generazioni è, a parere di chi scrive, dovuto alla grande coerenza artistica ed allo spessore filosofico di cui è intrisa la produzione discografica – e non solo – di due cantori di dimensioni altre, di mondi lontanissimi, eppure raggiungibili da tutti – era questa la magia! – in cui è possibile realizzarsi senza perdere se stessi e i propri valori e, soprattutto, senza sopraffare nessuno.
La loro proposta musicale è stata, infatti, funzionale ad un messaggio più complesso, non racchiudibile all’interno dei canonici quattro minuti di una canzone – figuriamoci dentro quest’articolo – ma, miracolosamente, tanto bastava a spinger un ragazzo qualunque, in cerca di nuovi e più sinceri modi di essere, di nuove ontologie, di differenti modi di abitare questo mondo, ad approfondire, a capire, a collegare, passando pomeriggi interi ad ascoltarne musiche e parole che non lo avrebbero mai più abbandonato. Grazie Maestro. I W Erriquez.
[1] Intervista, https://www.ilfattoquotidiano.it/2009/10/30/requiem-per-la-politica-il-can/12299/
[2] Intervista, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/12/23/con-battiato-natale-in-iraq.html
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a cura di Michele Lucivero
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