“Prima i tortellini” dice il signor Ugo, commercialista in pensione, mentre piega con la signora Marisa verso la porta del ristorante Diana, approdo domenicale solenne della borghesia bolognese. “Dopo andremo a votare Bonaccini, questo è chiaro”. Bologna a mezzodì si divide tra la tavola e i seggi elettorali che di prima mattina sono presi d’assalto. La novità, più della fila, la fa l’anagrafe: giovani e giovanissimi hanno preceduto i nonni. Le sardine mattiniere sono come coccinelle di buon augiurio per il governatore uscente che mai ha trascorso una notte più tribolata. È infatti andato a letto con l’annuncio di una quasi disfatta, il cambiamento lo chiedevano a Forli e a Piacenza, ma pure a Parma. L’onda verde salviniana dopo aver allagato le campagne si stava dirigendo in città. Perciò quella fila così allungata e così giovanile nel seggio nei pressi di viale Lenin, e quel torciglione della Bolognina dove nonni e nipoti si davano il cambio, è stato l’annuncio che qualcosa di grosso si era mosso nella società emiliana. “Se l’affluenza è alta, perdiamo. Se è altissima, vinciamo”, ha detto, dopo aver dato uno sguardo ai seggi, l’assessore bolognese Marco Lombardo.
“Bisogna vedere come tira a Forlì e Ferrara…”
Seggi pieni, stipati anche al Pilastro, il quartiere del degrado, dello spaccio, degli ultimi. Il quartiere del citofono, il luogo in cui Matteo Salvini, decidendo di travestirsi da sceriffo del popolo, ha citofonato a una famiglia tunisina indicando – ben inquadrato dalle telecamere – lo spacciatore condominiale. Al Pilastro ieri è andato anche Virginio Merola, il primo cittadino. Anche lui ha citofonato, ma era sua madre che lì abita, l’ha fatta scendere e l’ha accompagnata a votare.
“Qua si vince”, dice Francesco Vitale, una lunga militanza nella Cgil. “Non è Bologna il problema, bisogna capire la Romagna come tira, Forlì, quelle zone lì”. Non solo Forli, appena riconquistata dalla Lega, ma Ferrara, caposaldo storico del simbolo padano, provincia messa peggio delle altre, governata da Alan Fabbri, candidato alle scorse regionali a governatore, con uno staff di assessori e consiglieri che si è fatto parecchio notare. Offerte di poltrone in cambio di silenzi e accondiscendenza, avvertimenti, veleni, registrazioni furtive di colloqui burrascosi, di una lunga faida interna.
“La Lega tira, tutti dicono che vince, purtroppo – comunica il tassista del 4590, la centrale operativa – Tutti lo dicono, mica io?”. “Io sono per il cambiamento”, annuncia il collega mentre mostra la sua auto: “Tutta elettrica, stiamo andando nel nuovo mondo”.
A Casalecchio di Reno intanto, alle porte di Bologna si organizza la serata elettorale del candidato del centrosinistra. È una casa del popolo posta ai margini di un’area industriale. È fuori la città e soprattutto fuori dal Pd. Se infatti le sardine si vedono – perchè girano a gruppi, si scambiano sorrisi, strette di mano, consigli su chi mandare in Regione a parte il governatore – il Pd – partito-Stato, il partito padre dell’Emilia Romagna – sembra scomparso, volatilizzato, praticamente inesistente.
“Siamo fritti”: ma è uno scongiuro
C’è Salvini da una parte e a realizzare la resistenza armata solo Bonaccini, con i suoi occhialoni tondi e la barba trendy, il suo nuovo colore è il verde, quasi a sovrapporlo a quello padano, e una lista personale ampia: dalla sinistra ai renziani, agli amici di Calenda.
Il defunto dunque è il Pd. “Non so dire cosa succederà, aspetto di vedere i risultati e spero che gli emiliani mi diano conforto” dice al telefono il politologo Gianfranco Pasquino. La paura, fifa blu, fa novanta, e non c’è luogo dove non si colga.
“Questa volta siamo fritti, così sembra”, spiega la cameriera dell’albergo. “Ma io non sono contenta”.
Sembra il de profundis, quasi certo che tra gli sconfitti sicuri ci sia Nicola Zingaretti, che ha lasciato a Bonaccini la guida della battaglia e ha fatto retrocedere il Pd in una trincea. Sconfitti, anzi di più, i cinquestelle i quali, in un incredibile atteggiamento suicida, ha imposto a Simone Benini, suo bravo militante, di fare il candidato-farsa, di andare alla guerra senza neanche un fucile in mano. I Cinquestelle avrebbero perso comunque, qualunque fosse stato l’esito finale. Se Bonaccini avesse vinto, come sembra, loro sarebbero stati ininfluenti, condannati all ’ irrilevanza. Se avesse perso, loro sarebbero stati i colpevoli, condannati all’espiazione della pena.
Ma l’Emilia è la terra dove Matteo Salvini si è giocato tutto e solo venerdi scorso ha assicurato in tv: “Non vinciamo, stravinciamo”.
Il matador ci lascia il pelo
Lui ha voluto Lucia Borgonzoni, completamente afono e negli ultimi giorni anche piuttosto assente dal dibattito pubblico. Una presenza che si è fatta via via più ridotta, più contestata. Tanto che le prime fasi dello spoglio annunciano il voto disgiunto persino da parte di elettori leghisti, oltre che di Fratelli d’Italia.
Il matador, cioè Salvini, è dunque trasfigurato nello sconfitto principale, se i dati dovessero essere con fermati. E colui che sembrava il partner debole, il comandando di una truppa in rotta, cioè Nicola Zingaretti, si conferma invece come un guidatore accorto, che sa stare sotto coperta e guadagna punti. Vincono, anzi stravincono le sardine. Perde, anzi straperde Silvio Berlusconi. In crisi di nervi i Cinquestelle, in forma smagliante Giorgia Meloni. È mezzanotte quando una pattuglia di giovani resistenti, quelli che con Mattia Santori hanno guidato la marcia di liberazione dalla Lega, e infatti si sono slegati, fanno festa a San Petronio.
di Antonello Caporale da da Il Fatto Quotidiano