“Se fossi lei, avrei una conversazione con il suo cliente… ci sono degli statuti negli Usa rilevanti e qualcuno nel suo team dovrebbe prenderli in considerazione”. Questa la minaccia velata del giudice Lewis Kaplan diretta a Joe Tacopina, legale di Donald Trump, nel processo di E. Jean Carroll che ha accusato l’ex presidente di averla stuprata e diffamata. Gli statuti a cui ha fatto riferimento Kaplan vertono sull’ostruzione alle indagini criminali. Il giudice ha ovviamente suggerito che Trump potrebbe inguaiarsi di più con la sua loquacità.
Cosa avrebbe fatto l’ex presidente per meritare questi avvertimenti che l’avvocato Tacopina ha promesso di comunicare al suo assistito? Si tratta di una serie di post di Trump nella sua piattaforma Truth Social in cui attacca personalmente il processo in corso dirigendo la sua ira verso la Carroll. In uno dei più velenosi attacchi l’ex presidente ha dichiarato che la denuncia di Carroll è finanziata da donatori politici a lui nemici. Ha poi detto che a lui non avrebbe mai potuto interessare una donna come lei e che lei non ha riportato il caso alla polizia e non ha nemmeno gridato durante il presunto attacco. Tutto una frode per lui.
I repubblicani hanno difeso Trump nel caso penale di Alvin Bragg a New York, attaccando il procuratore, asserendo che si tratta di una strumentalizzazione politica. Nel caso di Carroll, però, nessuno ha difeso Trump eccetto il figlio Eric che ha anche lui attaccato la Carroll nella piattaforma del padre. Questi ha in grande misura ripetuto le parole del padre asserendo che un miliardario sta finanziando la Carroll, semplicemente perché odia Trump. Sotto pressione del giudice Kaplan, però, il post è stato cancellato anche se è ancora disponibile.
Anche nel caso di Bragg i post di Trump sono stati discussi e il procuratore di Manhattan ha chiesto al giudice Juan Merchan di imporre limiti alle informazioni confidenziali del caso. Il procuratore ha espresso la preoccupazione che Trump potrebbe divulgare informazioni riservate nel suo social. Bragg ha reiterato l’irresponsabilità di Trump sottolineando anche la vicenda dei documenti top secret trovati a Mar-a-Lago, il resort dell’ex presidente in Florida per la quale è anche sotto indagini federali condotte dal procuratore speciale Jack Smith.
La preoccupazione di Bragg va oltre poiché gli usi di Trump dei social sono usati per mettere pressione sui suoi nemici e intimidirli. Gli attacchi a Carroll, per esempio, l’hanno convertita in bersaglio di alcuni sostenitori dell’ex presidente accusandola con parole volgari di essere una donna di facili costumi. Il procuratore di Manhattan è però preoccupato per la sicurezza dei suoi dipendenti e ovviamente anche dei membri della giuria. Gli attacchi di Trump, che spesso menziona nomi e cognomi di questi individui, genera minacce da parte dei suoi sostenitori. Bragg ne sa qualcosa. Ha ricevuto una lettera con polvere bianca e una minaccia di morte dopo essere stato etichettato da Trump come “animale”. Trump non ordina ai suoi fedelissimi di minacciare nessuno ma il suo linguaggio include incoraggiamenti poco velati alla violenza verso i suoi nemici. Va ricordato il caso più recente della perquisizione della sua tenuta in Florida da parte dell’Fbi. Gli attacchi nei social dell’ex presidente avrebbero ispirato un individuo ad attaccare l’ufficio dell’Fbi in Ohio armato di un fucile d’assalto. L’individuo era membro della milizia di ultra destra Proud Boys, quattro dei quali sono stati condannati recentemente di sedizione per la loro partecipazione negli assalti al Campidoglio il 6 gennaio 2021.
Trump da candidato e poi nei quattro anni alla Casa Bianca come presidente ha usato i social per attaccare i suoi nemici, spesso usando un linguaggio incendiario. Ha subito poche conseguenze per queste sue attività eccetto per il fatto che Twitter, Facebook, ed altre piattaforme gli bloccarono i suoi account subito dopo gli assalti al Campidoglio.
Adesso però con i due processi in questione i giudici hanno finalmente capito che questa sua strategia di usare i social come veicolo per attaccare i suoi nemici e le autorità meritano di essere disciplinati. Una soluzione potrebbe essere un “gag order”, un bavaglio che gli impedirebbe di discutere pubblicamente i casi legali.
Il giudice Merchan del caso di Manhattan fino a oggi si è rifiutato di imporre un bavaglio nonostante il fatto che lui stesso e la sua famiglia siano stati vittime degli attacchi velenosi di Trump. Il problema per i giudici è che Trump non è un accusato normale. Non è solamente un ex presidente ma anche un candidato politico alla presidenza.
Queste due situazioni gli conferiscono una notevole protezione. Va ricordato che come ex presidente avrà protezione dal servizio segreto a vita. Come cittadino e specialmente come candidato ha anche il diritto di esprimere le sue opinioni. Il problema però è che le parole offendono e possono anche uccidere. I due giudici fino adesso hanno dimostrato molta cautela e preferiscono andare piano. Allo stesso tempo se le parole di Trump vengono interpretate dai giudici come interferenza e ostruzione alla giustizia bisognerà agire. Alla fine saranno costretti ad imporgli il silenzio e forse usare misure molto più severe per mantenere i diritti legali degli avversari e la sicurezza di individui che stanno semplicemente svolgendo il loro lavoro.
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.