La narrazione della pandemia, Floriana Ceresato per Agorà: una guerra in un campo di battaglia inesistente

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La guerra al Coronavirus
La guerra al Coronavirus

Da un punto di vista comunicativo, la pandemia ci viene riportata in due modi: come un insieme di dati statistici, di indicazioni socio-sanitarie e come un avvenimento storico da raccontare.

La prima modalità, quella informativa, che deve essere mossa dall’esigenza di chiarezza e immediatezza nei messaggi da trasmettere alla cittadinanza, si è scontrata con un altro virus, quello dell’infodemia. Siamo sommersi da un’enorme quantità di informazioni, spesso non verificabili e non attendibili, che ci disorientano. Dai comunicati ufficiali delle istituzioni, alle notizie riportate dai media, passando per ciò che si trova in rete, la nostra capacità di discernimento è messa a dura prova.

Ma è la seconda modalità, quella narrativa, che, agendo in profondità e con meno evidenza immediata, ha già dato e sta continuando a dare risultati particolarmente interessanti. Alle prime avvisaglie della propagazione del contagio su larga scala, si è diffusa rapidamente l’immagine del virus come nemico da sconfiggere. Se il virus è il nemico, significa che ci troviamo in una situazione di conflitto; di conseguenza, l’epidemia è la nostra guerra. Col passare dei giorni tale rappresentazione ha generato le seguenti equivalenze: operatori sanitari=eroi in prima linea; ospedali=trincee; cittadini=soldati; deceduti=vittime, caduti. È stata veicolata l’idea di “far fronte comune” contro una minaccia esterna, sulla quale venivamo puntualmente aggiornati grazie ai comunicati ufficiali, paragonati in svariate occasioni a veri e propri bollettini di guerra.

La narrazione della pandemia in termini bellici risponde ad un meccanismo che la linguistica denomina “metafora strutturale[1]. Si tratta di un processo cognitivo mediante il quale un concetto viene strutturato nei termini di un altro, come nell’espressione “il tempo è denaro”. Ciò significa che il concetto, la circostanza e il linguaggio sono strutturati metaforicamente. Quindi, nel nostro caso specifico, chi parla della pandemia come di una guerra, pensa e vive la pandemia come una guerra. La metafora va oltre il linguaggio e coinvolge in prima istanza il pensiero. Il linguaggio metaforico può essere estremamente complesso e ambiguo, poiché opera una selezione i cui criteri non vengono esplicitati. La metafora seleziona ciò che vuole mettere in luce e ciò che vuole nascondere. Ne risulta che, se alcuni aspetti del concetto da esprimere non sono compatibili con quella metafora, vengono omessi. Ciò è evidente, ad esempio, nella frase “la vita è un bivio”, che implica la convinzione che esistano solo due strade percorribili.

L’appello accorato a schierarsi contro un nemico comune ha ottenuto l’immediato risultato di unire gran parte della popolazione sotto un unico slogan, “andrà tutto bene”, facendo leva su un sentimento patriottico dell’ultima ora. Tuttavia, una volta superata la forte reazione emotiva che sempre accompagna eventi straordinari, la tensione iniziale è andata scemando e l’attenzione si è progressivamente spostata sulla questione della riapertura e della tanto evocata “nuova normalità”.

Nel frattempo, la cornice retorica e metaforica della guerra ha continuato a svilupparsi, seguendo un semplice presupposto: dato che abbiamo fatto fronte comune contro il nemico per farlo battere in ritirata, ora possiamo finalmente uscire dalle nostre trincee e avanzare vittoriosi sul campo di battaglia. Si fa strada l’immagine della riconquista della libertà e degli spazi sottratti dal virus-nemico. Lo scontro diretto si è concluso e il pericolo è stato arginato. É necessario ripartire.

L’appello alle armi”, che inizialmente era parso così spendibile a livello comunicativo, inizia a rivelare il rovescio della medaglia di un’interpretazione concettuale limitata e limitante: cosa rimane quando la minaccia incombente inizia a dissolversi all’orizzonte e non abbiamo più un motivo per cui combattere? Nulla. Nessuna visione per il post emergenza.

L’architettura semantica della guerra crolla miseramente se non si trova un nuovo nemico contro il quale scagliarsi. La metafora bellica, per reggere, necessita dell’alterità: l’unica soluzione che può proporre per il post emergenza è sostituire il primo nemico con un secondo, un terzo e così via. Preferire la retorica dell’alterità all’educazione dell’autorità ha avuto determinate conseguenze nella visione della pandemia e nelle reazioni sociali: si è posto l’accento principalmente sul fattore esterno di minaccia e poco si è fatto, invece, per educare ed accrescere la responsabilità di ciascun individuo.

A distanza di un anno dallo scoppio dell’epidemia, il paese si ritrova nuovamente faccia a faccia con quel nemico che sembrava essere retrocesso, ma la cornice retorica della guerra non regge più, la metafora bellica non può essere proiettata sul lungo termine. Restano, però, gli strascichi di una narrazione semplicistica e “di pancia”, che hanno preparato il terreno a nuove ostilità, valvole di sfogo della rabbia sociale accumulata[2].

«Abbiamo combattuto, facendo il nostro dovere, perché ora non veniamo premiati? Allora ci avete presi in giro con la vostra chiamata alle armi, ci avete presentato una realtà distorta e ora non vi crediamo più. Gli eroi che abbiamo sostenuto e che ci raccontavano di essere in prima linea, non lo erano affatto, la verità è che avete ingigantito una cosa che, forse, neanche esiste. Adesso vogliamo tornare a vivere, non ci rinchiuderete di nuovo in pochi metri quadri. Confinate quelli che per età o per altre patologie sono già segnati e lasciate a noi la nostra libertà».

Ecco ciò che ci lascia la scelta di una struttura metaforica e di una cornice narrativa dal potere tanto evocativo, quanto condizionante: le rovine di un pensiero appiattito su un campo di battaglia inesistente.

[1] G. Lakoff, M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano 2004.

[2] N. Chomsky, Illusioni necessarie. Mass media e democrazia, Elèuthera, Milano 2010.

Dott.ssa Floriana Ceresato
Dott.ssa Floriana Ceresato

di Floriana Ceresato

Floriana Ceresato è laureata in Lettere Moderne (Triennale), Filologia Moderna (Magistrale) e ha conseguito il Dottorato di Ricerca Internazionale in Lingue, Letterature e Culture Straniere e in Études  Médiévales presso l’Università Roma Tre – Université Paris Sorbonne. Partecipa a diversi progetti di ricerca internazionali sull’informatizzazione e lemmatizzazione dei testi letterari.


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a cura di Michele Lucivero

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