Rispondendo a una domanda in un’intervista concessa al New York Times sul perché ha scelto di scrivere in italiano, Jhumpa Lahiri ha risposto con una sola parola: “Joy” (Gioia). La Lahiri, scrittrice americana di origini bengalesi, ha vinto parecchi premi per le sue opere letterarie in inglese. Nel 2000 ha persino vinto il prestigioso Premio Pulitzer per i suoi racconti “L’interprete dei malanni” (Interpreter of Maladies).
Dopo una carriera di successo in inglese ha scelto di scrivere in italiano, una lingua non sua, che ha imparato da adulta. Il primo libro scritto direttamente in italiano, “In altre parole” (2015), tratta della sua esperienza di imparare l’italiano e la sua passione per la nostra lingua e cultura. Questo interesse per l’italiano nacque nel 1994 dopo una settimana a Firenze e poi continuò più tardi con studi privati ma è anche confermato dalla sua tesi di dottorato sul rinascimento completata alla Boston University nel 1997. Nel 2012 Lahiri si trasferì permanentemente a Roma con la sua famiglia dove vi rimase fino al 2015. Il suo tempo nella nostra capitale fu un’immersione e perfezionamento della sua conoscenza dell’italiano. “In altre parole” fu tradotto in inglese (In Other Words 2016), da Ann Goldstein, nota traduttrice che ha anche reso in inglese il “Quartetto napoletano” (Neapolitan Quartet) di Elena Ferrante. Lahiri avrebbe potuto fare la traduzione in inglese lei stessa ma decise di no.
Il secondo libro in italiano di Lahiri, pubblicato nel 2018, “Dove mi trovo” è un romanzo anche se non tradizionale. È formato da 46 capitoli brevi, alcuni brevissimi, narrati da una donna sulla quarantina. Toccano diverse situazioni e luoghi della città dove abita, Roma, anche se il nome non viene mai specificato. La narratrice descrive una specie di diario che copre diverse stagioni, il vicinato di casa sua, i giardini, i ponti, le piazze, le strade, i negozi, i bar che lei visita e le persone con cui interagisce. La narratrice dà l’impressione di vivere in questi luoghi ma in un certo senso rimane al di fuori di essi, chiusa in se stessa dal punto di vista psicologico. Lahiri scrive con un italiano sobrio, frasi molto brevi, con pochissime subordinate, ma riflette la sua conoscenza letteraria dimostrata già in inglese che usa anche nella sua nuova lingua adottiva.
La traduzione di “Dove mi trovo” che è appena uscita in inglese da Knopf riflette un percorso diverso da quella del suo primo libro in italiano. Ciò si deve a ragioni pratiche e nuove esperienze. Lahiri è ritornata negli Usa nel 2015 avendo assunto l’incarico di direttrice del programma di scrittura creativa alla Princeton University dove ogni semestre insegna anche un corso sulla traduzione letteraria. Questo interesse per la traduzione non è nuovo poiché era già iniziato da studentessa alla Boston University. La tesi per la sua laurea magistrale (Master of Fine Arts) consiste della traduzione di sei racconti dell’autore bengalese Ashapurna Devi. Per la traduzione di “Dove mi trovo” Lahiri aveva esitato all’inizio ed aveva incaricato la traduttrice Frederika Randall, pensando che nelle fasi finali del progetto le due avrebbero collaborato. Poi dopo avere esaminato le prime bozze preparate da Randall, morta nel 2020, Lahiri si rese conto che lei stessa potrebbe tradurlo. In realtà, dopo la traduzione di “In altre parole” la Lahiri aveva fatto una specie di tirocinio in traduzione che con ogni probabilità la avrà influenzata. Lahiri ha tradotto in inglese due romanzi del suo amico Domenico Starnone—Lacci 2014 (Ties 2017) e Scherzetto 2016 (Trick 2018). Quindi l’idea di traduzione non era affatto fuori da considerazioni.
La traduzione, specialmente quella letteraria, non consiste solo di rivestire un’opera con un’altra lingua. Riflette infatti una creazione, come se il prodotto finale diventerà una nuova opera, spesso lontano parente dell’originale. Nell’intervista al New York Times, infatti, Lahiri ha spiegato che nel tradurre si cerca “un linguaggio che permetterà all’opera di rinascere”. Ecco come si potrebbe spiegare il titolo in inglese di “Dove mi trovo” (Whereabouts). Un traduttore tradizionale avrebbe probabilmente optato per la versione più letterale come “Where I find myself” oppure “Finding myself”. Questa scelta della scrittrice-traduttrice perde l’io suggerito dal verbo nel titolo originale. Ma Lahiri non è solo la traduttrice di se stessa, caso rarissimo in letteratura, è anche la creatrice di ambedue le opere e ovviamente avrà avuto le sue ragioni. Lahiri sta preparando parecchi altri libri, uno dei quali consiste di poesie in italiano. La gioia di scrivere in italiano continua ma la traduzione delle sue stesse opere moltiplica la sua creatività, offrendoci un quadro più completo del suo talento.