La paura di guardare al di là delle sbarre

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Parlatorio in un carcere
Parlatorio in un carcere

(Articolo da Vicenza Più Viva n. 5, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).

Buongiorno dottoressa, sono la mamma di un detenuto del carcere, mio figlio ha una breve pena da scontare, di 4 anni, per piccoli reati tipici di chi si droga, ma non gravissimi come si potrebbe pensare. È entrato in carcere al San Pio X da poco, ma lo trovo molto addolorato, triste, piange spesso, gli manca la sua famiglia. Mi chiedo cosa possiamo fare noi, come possiamo essergli d’aiuto e soprattutto come potrà essere la sua vita dopo il carcere, esiste speranza per chi ha una fedina penale sporca? Grazie.
Mamma Sara

Carissima sig.ra Sara,
l’impatto con il carcere è indubbiamente traumatico. Adattarsi non è facile, possono manifestarsi crisi di panico, disturbo di ansia generalizzata, agitazione psicomotoria,
crisi confusionali, anedonia, disturbi dell’adattamento di matrice ansiosa o depressiva, disturbi alimentari, ma anche eventi deliranti e psicotici (si vedano le c.d. psicosi carcerarie – Mencacci e Loi, 2002; De Mennato, 1937; Abdalla Filho et al. 2010).
Quando un detenuto manifesta sintomi di disadattamento, come nel caso di suo figlio, che il sistema penitenziario non riesce a contenere con gli altri strumenti a sua disposizione, come la terapia psicofarmacologica ed il cosiddetto trattamento intramurario (corsi scolastici, formazione professionale, lavoro ecc.), è possibile chiedere dei colloqui di sostegno psicologico, effettuati su richiesta diretta del detenuto oppure su segnalazione della Direzione.
L’esperienza del carcere è per suo figlio, l’esperienza del limite. Rappresenta in questo senso quanto di più prossimo al lutto esista: il lutto arriva imponendosi come “limite” invalicabile, separazione tra il prima e il dopo, evento esterno o deus ex machina totalmente al di fuori del controllo individuale da parte del soggetto, è il trovarsi in uno stato di impotenza, è la forza soverchiante della sofferenza e del dolore.
All’interno del carcere suo figlio è murato vivo, con tutti i suoi ricordi, anche una semplice lettera da parte di un familiare diventa la benzina per evolvere verso un radicale cambiamento, perchè il sostegno morale lo può trovare oltre che dentro di sé, anche in una lettera della mamma o di altre persone care.
Premesso, che il carcere di San Pio X affronta ogni giorno le sfide comuni del sistema carcerario italiano, come la mancanza cronica di personale e il sovraffollamento
delle celle; nonostante, queste note negative, vi sono innumerevoli iniziative finalizzate a migliorare la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti, attraverso programmi educativi, formazione professionale e assistenza sociale. Il carcere non è la
morte, la vergogna, il fallimento, la fine, rimane sicuramente un passaggio amaro, anzi amarissimo, ma è anche un luogo pieno pieno di vita, di speranza, di domani. Il carcere è come un grande grembo dove, se si vuole, si può veramente rinascere e costruire, giorn dopo giorno, la resilienza.
A Vicenza non mancano esempi di rieducazione, come il negozio monomarca “Libere golosità”, in Corso Fogazzaro, che insieme ad altri punti vendita in provincia di Vicenza (Schio, Bolzano Vicentino, Bassano del Grappa, Malo, …) rappresenta un ponte tra il carcere e i vicentini, attivo dall’8 dicembre 2019, gestito dalla cooperativa M25. In vendita ci sono panettoni, pandori, biscotti, veneziane, crostate, grissini e cracker artigianali,
nati dalle mani di un gruppo di detenuti dalla casa circondariale di Vicenza. Dodici ore di lievitazione, nessun conservante, utilizzo di materie prime di qualità.
Un’altra esperienza è il laboratorio di cucito all’interno della Casa Circondariale di Vicenza: “Un filo che unisce” nato nel 2017 grazie a tre volontarie bassanesi. Il “Filo che unisce” è quello concreto della cucitura o del sottopunto, ma è anche quello tra il dentro e il fuori del carcere, o tra i vari tasselli di vita anche imperfetti che ciascuno rappresenta.
Il problema del dopo-carcere è sicuramente cruciale e racchiude probabilmente tante domande: riuscirà mio figlio a innescare il tanto agognato cambiamento?; riuscirà a mettere la parola fine a tutto quello che finora non ha funzionato e ricominciare una nuova vita, per godersi finalmente un sole non più a strisce?
Come diceva Martin Luther King: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla», questa sarà ed è la grande sfida evolutiva a cui è chiamato suo figlio.
Lei, signora Sara, solleva inoltre un problema che porta spesso l’opinione pubblica a dividersi. Da una parte, c’è chi vede questa possibilità come un’opzione percorribile, capace di influenzare positivamente non solo la vita di chi ha sbagliato in passato, ma l’intera società. Dall’altra parte, tanti sono coloro che demonizzano e invocano carcere duro a priori per chiunque arrivi in una prigione.
Il reinserimento lavorativo e sociale è la fatica di rimontare una china col fardello di uno stigma pesante, e da noi fatto più pesante con l’obliqua crudeltà di una fittizia eguaglianza di chance. Se conoscessimo la larga sovrapposizione dell’area di devianza con l’area del disagio sociale di tipo espulsivo saremmo più accorti: la vita è per tutti in salita, ma l’erta è più aspra per chi ha inciampato e s’è ferito, e sale col passo di un ferito. E non trova lavoro perché il tempo del carcere non gli ha insegnato nessun lavoro, contro le promesse di
legge: a tre su quattro ha inflitto l’ozio forzato. L’appuntamento con la recidiva lo costruiamo noi, da insensati.
“Libero”, il secondo tempo della vita di un ex detenuto, scarcerato, equivale ad “ex detenuto” e gli effetti dalla carcerazione lo seguono ovunque, rischiando di far vacillare quella gioia infinita della ritrovata libertà. L’ex detenuto ha paura di guardare al di là delle sbarre. Si trova a confrontarsi con una vita fuori dalle mura del carcere che ha cambiato assetto, gli affetti ed i sentimenti rischiano di avere una nuova forma, e la realtà potrebbe portare a rendersi conto che gli amori sono naufragati, gli amici si sono allontanati, la famiglia è cambiata per lutti, malattie, dissapori; scontrandosi con la difficoltà di un reale reinserimento all’interno della società.
E il rischio di ricadere in errori del passato è dietro l’angolo, è quella che viene chiamata recidiva, con una percentuale in Italia intorno al 70%. Un recluso che esce dal carcere si trova disorientato. Solo o con affetti da riconquistare, ma anche senza alcun sostentamento, senza alloggio e senza lavoro. Per questo motivo, è fondamentale che
voi familiari siate una presenza nella vita di vostro figlio, non un sostituto rispetto alle difficoltà che dovrà affrontare, ma un sostegno.
La recidiva si può scongiurare creando tutti i supporti e le condizioni materiali e psicologiche affinché le persone detenute, una volta libere, abbiano la possibilità di effettuare scelte di vita diverse da quelle che le hanno portate in un penitenziario dove hanno scontato il loro debito con la giustizia. Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni.
(Fëdor Dostoevskij)
I miei migliori auguri.
Un caro saluto

Riferimenti bibliografici
Bateson, Verso un’ecologia della mente (trad. it.), Adelphi, Milano. Concato, G. Rigione, S. ( 2005), Per non morire di carcere. Esperienze di aiuto nelle prigioni tra psicologia e lavoro di rete, Franco Angeli, Milano
Cremona G., (1943) voce “Psicologia carceraria”, in E. Florian, A. Niceforo, N. Pende (a cura di), Dizionario di Criminologia, Vallardi, Milano.
Mencacci, C., Loi, M. (2002), Il problema delle patologie mentali in carcere, Parliamone, Anno XII, n. 1

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