Nel mondo dei greci chi non si occupava minimamente di politica veniva definito idiòtes, cioè una persona isolata, attenta al suo piccolo orticello e non alla risoluzione dei problemi della sua comunità, alla quale pure era chiamato a partecipare.
Oggi di idioti ce ne sono tantissimi, infatti il disinteresse delle persone di tutte le età nei confronti della politica è raccapricciante. Anche i giovani sembrano molto distanti dalla partecipazione e dall’impegno politico, che poi scoprono, eventualmente, solo quando cominciano ad entrare nel mondo del lavoro e a scontrarsi con i problemi concreti dell’economia e dell’organizzazione burocratica.
Sì è lentamente sopito, tuttavia, il coinvolgimento e la militanza dei giovani nelle varie formazioni partitiche, partecipazione che costituiva fino a qualche decennio fa la fucina e il laboratorio di idee genuine inerente al funzionamento di una macchina statale ideale, scevra da interessi e coinvolgimenti troppo marcati. E bisogna dire che anche il livello del dibattito era abbastanza acceso tra le formazioni politiche giovanili, dibattito che talvolta si risolveva in uno scontro fisico tra fazioni contrapposte. Certo, è una pura illusione pensare di vivere in un ambiente sociale pacificato solo perché non assistiamo a scontri di natura politica tra i giovani, giacché quella dose di violenza è stata solo trasferita su altri piani, per esempio quello religioso o quello sportivo.
Ad ogni modo, sebbene il significato e il campo di applicazione del concetto di “politica” siano estremamente vasti, occuparsi di politica vuol dire parlare di potere, organizzazione della società, mutuo soccorso, sfruttamento dei deboli, uguaglianza, equità e diritto alla differenza. Tanto più che sin dalle prime organizzazioni di ominidi, e secondo alcuni etologi anche tra le formiche e le api, è possibile rintracciare delle caratteristiche che permettono di parlare di “formazioni politiche”.
Solo dal momento in cui è stato possibile consegnare alla storia, per mezzo della scrittura, le prime opere sulle forme di organizzazione politica, si è capito molto sulle società del passato, sulle loro forme di potere, sui loro modi di intendere lo Stato e la società civile, sulla gestione economica e sulla estensione dei diritti ai rispettivi sudditi o cittadini.
Oggi dovremmo riscoprire la bellezza della vita associata e del fare politica, che non significa sempre e necessariamente militare in un partito, prendere una tessera e candidarsi alle elezioni, ma molto più semplicemente prendere a cuore la cosa pubblica, prendersi cura del bene comune e così anche la singola esistenza a questo mondo può assumere un valore eminentemente politico o, propriamente, biopolitico, come dice il filosofo francese Michel Foucault[1] sottolineando la dialettica esistente tra il potere e la libertà soggettiva.
Anche per questo, nell’articolazione di un percorso attraverso la chiarificazione di alcuni orizzonti della politica e dell’economia, si è voluto esplicitamente evitare la solita solfa retorica, che ai giorni nostri ha preso il nome di questione morale, inerente alla corruzione dilagante, con il conseguente corollario che il malcostume è di casa nella politica.
Insomma, il nostro tentativo, che vuole essere autenticamente decostruttivo, ma non stoltamente distruttivo, nei confronti della storia politica occidentale, è indirizzato verso la costruzione di una nuova consapevolezza, orientata a stimolare un concreto impegno in favore della partecipazione. Estranei a qualsiasi logica partitica, vogliamo cercare di infondere nei lettori un senso civico che prenda le mosse dalla maturità di soggetti politici in quanto corpi che vivono, lavorano e hanno rapporti interpersonali, cioè di esseri sociali. In quanto corpi politici, ogni nostra azione è eminentemente politica ed ha conseguenze politiche nello spazio sociale, al di là del mero esercizio del diritto di voto.
[1] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2015.
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a cura di Michele Lucivero
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