La protesta dimenticata dei giovani iracheni

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Sono trascorsi oltre 100 giorni dall’inizio delle proteste nelle piazze e nelle strade dell’Iraq. Oltre 100 giorni durante i quali il popolo iracheno, unito, rivendica quei diritti e quella giustizia sociale finora negati e chiede il cambio di un sistema politico che ha portato all’aumento delle divisioni su base confessionale e al dilagare della corruzione. Oltre 100 giorni di proteste pacifiche che, però, sono state represse con la violenza da parte delle forze di sicurezza e delle milizie. Il bilancio di questa sopraffazione nei confronti di chi, invece, rifiuta ogni forma di aggressività è di più di 500 morti e all’incirca 20 mila feriti. 

Di ciò che è accaduto negli ultimi 3 mesi e mezzo – e continua ad accadere – nelle piazze dell’Iraq Non Dalla Guerra ne ha parlato con Sara Manisera, giornalista freelance che ha seguito “sul campo” le proteste fin da quando sono cominciate a inizio dello scorso ottobre. «In piazza Tahrir a Baghdad come nelle piazze di Nasiriyah, Basra, Nayaf (sud dell’Iraq, ndr) troviamo un vero e proprio movimento di mobilitazione giovanile. I protagonisti di queste proteste non violente sono ragazzi e ragazze che chiedono un futuro migliore con servizi pubblici efficienti, acqua potabile, diritti fondamentali come sanità e istruzione. Chiedono il superamento di un sistema politico-economico che ha privilegiato pochi a scapito di molti, denunciano la corruzione della classe al potere e respingono quelle dinamiche settarie che hanno segnato la storia del Paese» spiega Sara Manisera. 

La giornalista freelance Sara Manisera.

In Piazza Tahrir, diventata simbolo delle proteste, ci sono giovani che hanno 25-30 anni al massimo e che si sono uniti sotto il grido di “Un altro Iraq è possibile” e “Vogliamo una patria”. Uno degli elementi che caratterizza questa mobilitazione, e che mai si era visto prima, è la sua trasversalità senza riferimenti religiosi e politici. «Sunniti, sciiti, curdi, cristiani protestano assieme con la bandiera irachena in mano per gli stessi ideali e obiettivi. Ci sono attivisti, studenti, giovani laureati, disoccupati appartenenti a tutte le classi sociali. E non c’è un leader» sottolinea Manisera. Un altro elemento fondamentale, poi, è che: «siamo di fronte a dei movimenti di mobilitazione dalla grande maturità politica per quanto riguarda proposte e rivendicazioni. I ragazzi e le ragazze che scendono nelle piazze, dove passano giorno e notte, si sono organizzati con delle tende in cui preparano il cibo per i manifestanti, altre in cui prestano soccorso medico ai feriti e sono continui i controlli per evitare che qualcuno porti con sé delle armi». 

Nonostante da parte di questi giovani ci sia il completo rigetto di ogni forma di violenza, da parte delle forze di sicurezza irachene e delle milizie filoiraniane la repressione è stata ed è durissima. Gli ultimi due morti risalgono a meno di una settimana fa a Baghdad e si aggiungono a quelli di una lunga lista. «Sui manifestanti vengono lanciati gas lacrimogeni e proiettili vivi. Nonostante si cerchi con i modi più brutali e intimidatori di svuotare queste piazze e di fermare un movimento dalla natura pacifica portandolo al caos, i giovani continuano a resistere» racconta la giornalista. Oltre alla violenza, poi, è stato messo in pratica anche il metodo delle sparizioni forzate. Il caso che ha avuto più eco nella stampa internazionale è quello che riguarda Salman Khairallah, impegnato nella difesa dei fiumi Tigri ed Eufrate e del patrimonio ambientale iracheno e Omar Khadhem al-Ameri, difensore dei diritti umani. I due giovani erano scomparsi per mano delle forze di sicurezza il 10 dicembre per poi venire liberati sette giorni dopo. Ad oggi, per, sono centinaia i giovani che sono spariti e di cui non si sa più nulla. «Viene usata la strategia della paura per bloccare le proteste. Molti giovani hanno il timore di essere presi o arrestati» continua Manisera. 

I giovani ripuliscono le strade dopo una manifestazione (foto Sara Manisera).

Eppure ciò che sta accadendo in Iraq sta passando sotto traccia nei media e nell’opinione pubblica. O meglio le luci dei riflettori si sono alzate (ma di riflesso) con l’uccisione del generale iraniano Sulaimani a Baghdad e con le tensioni tra Iran e Stati Uniti. «A riguardo da parte dei media italiani è stata presentata una narrazione distorta che mette al centro lo scontro tra due poli, senza considerare la dimensione umana e ignorando le conseguenze di questo braccio di ferro sui civili. Uno degli slogan nelle piazze irachene è “Né Usa, né Iran”. A manifestare sono i giovani di un Paese dove il 60% della popolazione ha meno di 25 anni, dove 1 iracheno su 5 vive sotto la soglia della povertà, dove l’energia elettrica come l’acqua non è garantita in maniera continuativa. Sono stanchi e lo sono anche di queste lotte di potere, dal 2003 vivono in un clima di guerra. Vogliono diritti, dignità e giustizia sociale. Non un altro conflitto, ma una risoluzione pacifica per le loro richieste – conclude Sara Manisera -. Su di loro dovrebbero essere puntati i riflettori e sotto questo punto di vista l’Iraq dovrebbe essere un esempio per i movimenti progressisti europei così come dovrebbe esserci un movimento di solidarietà e supporto internazionale nei confronti del popolo iracheno e della sua lotta».