Nonostante la scelta di non aderire a nessun partito e non rendere dichiarazione di voto nel corso dell’ultima campagna elettorale, Meritocrazia ha raggiunto risultati che in tanti davano per impossibili. Mostravano sfiducia soprattutto i più affezionati alla politica tradizionale, quanti meno credono nella possibilità di trovare un punto di riferimento in Movimenti culturali come il nostro.
In questi anni non ci siamo lasciati contagiare dal disfattismo e abbiamo perseverato nell’opera di costruzione, nello scenario poco confortante della disaffezione, della deriva valoriale, dell’assoluta carenza strutturale, della crisi sanitaria, economica e soprattutto sociale.
Se il progetto è cresciuto, è accaduto perché Meritocrazia ha saputo cogliere l’importante differenza tra rivolta e rivoluzione, e ha saputo direzionare il suo desiderio di reazione.
Durante il primo Congresso nazionale, dissi che il nostro sogno era quello di essere come il mare, e di portare l’onda di una Rivoluzione umile e garbata. Ma, quando si parla di rivoluzione, è facile essere fraintesi. Il termine riporta subito alla mente l’attacco al potere, il moto d’eversione dell’ordine costituito.
La Rivoluzione, quella vera, è altra cosa. Non è lotta contro qualcuno.
Quella cruenta, di violenza e spargimenti di sangue, è mera rivolta senza prospettiva, che si consuma nell’animo di chi la agita, e non dona nulla al futuro.
Non è rivoluzionario il cambiamento auspicato da partiti che, nel dichiararsi dalla parte dei più deboli, costruiscono il consenso elettorale sulla conservazione della sofferenza e del disagio di tanti, foraggiando logiche puramente assistenzialiste e non lavorando davvero per la libertà dal bisogno.
Parlando di rivoluzione, il pensiero va naturalmente ai moti francesi che si agitavano sotto il regno di Luigi XVI e sorgevano dalla grave carestia che esponeva il Popolo a fame e malattia. Il disagio sociale rendeva ancora più evidente l’opulenza nella quale invece vivevano alcuni. Del resto, soltanto l’agio fa rimanere indifferenti alla divisioni sociali. E, all’epoca, l’agio mancava.
Fu in quel contesto che i cittadini chiesero a Luigi XVI di indire gli Stati generali e di aprire il dialogo tra le tre classi sociali per risolvere un problema che stava raggiungendo livelli di drammaticità. Gli Stati generali erano composti da monarchia, clero e Popolo, che, da solo, rappresentava il 96% della società. Si invocava una diversa imputazione dei voti nei processi decisori; fino a quando fosse stato attribuito a ogni classe un solo voto, monarchia e clero sarebbero stati sempre in maggioranza, e avrebbero potuto continuare a fare il bello e il cattivo tempo. E il Popolo a subire.
La richiesta non fu accolta. La rabbia del Popolo si fece rivolta. E dalla rivolta, si passò poi alla rivoluzione. Il 20 giugno 1789 fu stipulato un patto oggi noto come il ‘giuramento della Pallacorda’, espressione dell’assunzione di una nuova consapevolezza da parte del Popolo, quella di poter, da solo, sovvertire il potere.
Pochi potenti non potranno mai avere la meglio sulla maggioranza, se la maggioranza si organizza. La forza è sempre nella coesione.
È nella progettualità il segreto della riuscita. Sono i progetti culturali che portano il cambiamento radicale del quale si ha bisogno.
La rivolta sia lasciata ai deboli, a chi si lascia vincere dalla sete di vendetta. La Rivoluzione la facciano i cittadini responsabili.
Dalla Storia si deve saper cogliere il giusto insegnamento. E non va sottovalutata, perché, alla fine, si torna sempre allo stesso bivio. Non è vero che i fatti non si ripropongono.
Quel passaggio, segnato dalla Rivoluzione francese, dall’Ancient régime agli albori del diritto costituzionale organizzato e democratico, può avvenire ancora.
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Fonte: LA RIVOLTA AI DEBOLI, LA RIVOLUZIONE AI CORAGGIOSI