Quando Massimo D’Azeglio auspicava nel 1861,che “fatta l’Italia si tratta adesso fare gli italiani”, probabilmente pensava alle caratteristiche “dell’italiano”del Guicciardini, “attento al suo particulare che non va oltre la famiglia e, quando va bene, il campanile”.
Per l’italiano, ad esempio, il veneto,toscano e siciliano,il senso della Patria e l’amor patrio crescono nella consapevolezza delle proprie radici identitarie. Un concetto di identità intesa come consapevolezza di sé, dei propri valori culturali di fondo non negoziabili, della propria arte e cultura creata da pittori, scultori, musicisti, filosofi, scienziati, scrittori, poeti, ecc. Tutte componenti che hanno contribuito a creare una sorta di programmazione mentale collettiva che va sotto il nome di cultura italiana.
Massimo Montanari, nel suo libro “Il cibo come cultura”, afferma che il cibo costituisce il primo modo di entrare in contatto con altre culture, perché mangiare il cibo altrui è più facile che decodificarne la lingua. Il cibo media fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni. Le culture si modificano e si ridefiniscono incessantemente come le culture alimentari e gastronomiche.
Le identità culturali non sono «spirito dei popoli» e neppure sono inscritte nel patrimonio genetico di una società, ma si modificano e si ridefiniscono incessantemente, adattandosi a situazioni sempre nuove determinate dal contatto con culture diverse.
Secondo lo storico francese Jacques Le Goff “le realtà politiche e mentali del Medioevo italiano sono, ben più che l’Italia, gli italiani”.
E’ proprio nel Medioevo europeo, che, vide formarsi un’identità alimentare e gastronomica nuova, sostanzialmente innovativa rispetto al passato . La nuova civiltà, come sappiamo, nacque dall’innesto della tradizione romana (ripresa e rafforzata dal cristianesimo) su quella barbarica; la cultura del pane, del vino e dell’olio si incrociò con la cultura della carne, della birra e dei grassi animali, e quello che ne scaturì fu un modello inedito di produzione e di consumo, in cui la carne (soprattutto la carne di maiale) affiancava il pane come «valore forte» del sistema, in una dinamica di reciproca integrazione, al tempo stesso economica e simbolica, che costituisce uno dei più interessanti episodi nella storia della cultura alimentare. In questo modo, infatti, il pane e il maiale, e con loro il vino, diventarono i simboli alimentari dell’identità europea, proprio nel momento in cui sulle sponde meridionali del Mediterraneo si affermava una nuova fede, quella islamica, che non caricava quegli alimenti di significati simbolici altrettanto decisivi (il pane) o addirittura li rifiutava come impuri (il vino e il maiale).Le culture alimentari si costruiscono quindi storicamente, nella dinamica quotidiana del colloquio tra persone, esperienze e culture diverse. Per Montanari, l’italianità della pasta, o del pomodoro, o del peperoncino (o della pasta al sugo di pomodoro arricchito di peperoncino) è fuori discussione. Ma è anche fuori discussione che la pasta, il pomodoro, il peperoncino appartengano in origine a culture diverse: e che sia necessario scavare nello spazio, oltre che nel tempo, per recuperare i frammenti di storie diverse che alla fine si incrociano e danno origine a storie e identità nuove. In fondo, la ricerca delle proprie radici finisce sempre per essere la scoperta dell’altro che è in noi. Un altro che, attraverso complicati processi di osmosi e adattamento, in vari modi ha contribuito a farci diventare quello che siamo. Proprio per questo parliamo di identità culturali che si costruiscono nel tempo, mediante il confronto e lo scambio. È esattamente questo il genere di identità che esprime la storia alimentare e gastronomica di un’Italia che si modella come spazio di valori comuni, di saperi e di sapori conosciuti . Un’Italia di localismi e regionalismi che sono tali proprio perché confrontati e contrapposti ad altri localismi e regionalismi.
Montanari parlando di “identità alimentare e gastronomica” e di “modelli alimentari” si riferisce a un tratto culturale che si esprime in un comportamento alimentare, con una selezione di certi cibi, con un particolare gusto e con determinate abitudini alimentari .
La cultura alimentare italiana, come si è accennato, nasce a poco a poco dallo scontro incontro fra romani e “barbari”, fra la cultura del pane, del vino e dell’olio, simboli della civiltà agricola romana e la cultura della carne e del latte, del lardo e del burro, simboli della civiltà “barbarica”, legata alla foresta più che all’agricoltura. Questa nuova realtà coniugava le tradizioni e gli stili di vita delle popolazioni mediterranee e di quelle continentali, spostando il baricentro dal Mediterraneo all’Europa. Gli storici hanno denominato «agro-silvo-pastorale» questo modello produttivo in cui il pane e i cereali hanno la stessa considerazione della carne e dei latticini. Si tratta di una simbiosi al tempo stesso economica e mentale. Come precisa Montanari, “il fenomeno fu accelerato dal diffondersi della religione cristiana, che costrinse gli europei a modelli di comportamento comuni. Da un lato essa conferì straordinario credito ai simboli tradizionali della civiltà mediterranea, pane vino e olio, divenuti emblemi e strumenti di culto della nuova fede (il pane e il vino per la celebrazione eucaristica, l’olio per la somministrazione dei sacramenti). Dall’altro introdusse in ogni parte del continente i medesimi obblighi di alternanza alimentare, legati al calendario liturgico che scandiva lo scorrere del tempo, distinguendo i giorni e periodi ‘di grasso’ (quando mangiare carne era consentito, o addirittura raccomandato come segno della festa) dai giorni e periodi ‘di magro’ (quando la carne si doveva sostituire con cibi vegetali o tutt’al più con latticini, uova, pesce).
In questo modo si sollecitava la compresenza di tutti i prodotti, di tutti i grassi, di tutti i condimenti su tutte le tavole dell’Europa cristiana. Il concorso di questi fattori politici, economici e religiosi generò una cultura relativamente omogenea, che definiamo europea. E fu in questo quadro d’insieme che a poco a poco si configurarono diverse identità regionali, legate al formarsi e al consolidarsi di tradizioni comuni, modi di vita, valori collettivi. In Italia, popoli diversi (dapprima i goti, poi i longobardi, che entrarono nella penisola assieme ad altri gruppi numericamente minori) si sovrapposero alla preesistente popolazione ‘romana’, essa stessa costituita da una molteplicità di stirpi tenute insieme dalla condivisione di una cultura comune. A poco a poco, da questa miscela di genti nacquero gli italiani.” La cultura ha dunque un ruolo fondante e portante nella formazione dell’identità italiana attraverso la definizione di uno spazio, materiale e mentale, all’interno del quale circolavano modelli di vita e di cultura, saperi e abitudini anche alimentari e gastronomiche.
Durante il Medioevo si configurò un modello alimentare “italiano” durato fino ai nostri giorni in alcune caratteristiche peculiari. L’Italia forgiò la sua identità culturale e politica secondo modalità che oggi definiremmo di rete senza poter contare su entità politiche omogenee ed estese nel territorio. In Italia la rete delle città, più forte che altrove, è la chiave di trasmissione e diffusione della cultura. Nel Medioevo le città restano un luogo determinante della vita civile in quanto sedi del potere politico e religioso, anche se le campagne e i centri rurali, con le abbazie e i castelli, assumono un considerevole rilievo. A iniziare dall’XI secolo esplode nel centro-nord della penisola il fenomeno comunale. Le città si costituiscono prima attorno al vescovo, poi in alcuni casi contro di lui, come centri di autogoverno e di controllo del territorio. Dal XIV secolo in poi, le “signorie” ereditano il fenomeno comunale e costituiscono vere e proprie dinastie familiari, ma confermano e rafforzano il carattere territoriale del governo cittadino. Il fatto che accomuna le esperienze sociali e politiche di diversa natura è “la capacità dei centri maggiori di imporre un dominio sui centri minori, creando una gerarchia fra la città capitale e le altre, che tuttavia continuano a coordinare un proprio territorio: si costituiscono in tal modo stati ‘regionali’ che allargano l’orizzonte economico, oltre che politico, del potere cittadino.
Resta, nella mutata situazione, il modello della città che governa il territorio. L’identità italiana in cucina, è il modello della rete che unisce insieme realtà politiche diverse, rendendole in varia misura omogenee sul piano culturale tramite la circolazione di uomini, idee, merci”. Gli uomini sono i professionisti della politica, i notai, i funzionari dell’amministrazione locale, ma anche gli artisti e gli intellettuali, i mercanti, i cuochi delle grandi famiglie. Le idee racchiudono conoscenze, esperienze e atteggiamenti mentali. Le merci sono i prodotti artigianali e gli alimenti che affluiscono e circolano sui mercati della penisola. Questo modello di rete costituisce la piattaforma di costruzione dell’identità italiana, al di là del carattere territoriale del governo cittadino e delle differenze fra esperienze sociali e politiche diverse.
Pellegrino Artusi,nella sua “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” pubblicata per la prima volta nel 1891, racchiude in un testo la gastronomia regionale italiana,un autentico modello di cibo e gusto italiano’. Dalla cucina regionale – popolare (pur tralasciando i piatti poverissimi: ) e domestica , Artusi proietta le sue ricette verso la fama nazionale e internazionale. “Un manuale fatto dagli Italiani”, ha aggiunto sempre, Massimo Montanari.
Nella sua opera l’autore romagnolo ,peraltro di professione ,commerciante di alimentari pone le basi ufficiali per la prima codifica della cucina regionale italiana, anche se l’amico,il professore di lettere di Verona,Francesco Trevisan,dopo aver esaminato,per la prima volta, il suo scritto,lo bollo’ dicendo:”questo è un libro che non avrà esito. Profezia disattesa da più’ di 100 riedizioni e la vendita di oltre 1 milione di volumi.
“La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”e’ un enorme mosaico di tradizioni regionali, tra fritture, ripieni, umidi, minestre, salse, arrosti, lessi, gelati e conserve.
Il libro (www.liberliber.it), raccoglie 790 ricette spiegate con approccio didattico e accompagnata da riflessioni e aneddoti dell’autore.
In questo “Vangelo della cucina italiana” ritroviamo la peculiarità della nostra italianità. L ‘individualità ‘italiana prima di tutto del vivere,nel “ paese del Bengodi”, in cui, secondo Artusi “ la soddisfazione di un bisogno va sempre unito al piacere, e il piacere della conservazione si ha nel senso del gusto e quello della riproduzione nel senso del tatto. Il gusto e tatto sono quindi i sensi più necessari,anzi indispensabili alla vita dell’individuo e della specie. O santa bicicletta che ci fa provare la gioia di un robusto appetito a dispetto dei decadenti e dei decaduti. Non vergognamoci dunque di mangiare il meglio che si può’ e ridiamo il suo posto anche alla gastronomia. Infine anche il tiranno cervello ci guadagnerà, e questa società malata di nervi,finirà per capire,che anche in arte,una discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice”.
La cucina e il cibo, sono un valore nazionale e una certezza patriottica per gli italiani.
Lo storico della gastronomia ,Alberto Capati nel 2010 dichiarò che“La raccolta di ricette di Pellegrino Artusi, conosciuta col titolo di “Scienza in cucina” e stampata nel 1891, non è solo il frutto degli ozi di un ricco borghese romagnolo e fiorentino, ma un opera di impegno civile: istruire cuoche e cuochi nella lingua italiana, far loro conoscere il patrimonio di molte regioni italiane, dalla Sicilia al Piemonte, stimolare una attenzione patriottica al cibo contro l’imperante francofilia”.
Orbene,se spesso la nostra italianità, si perde “all’ombra del campanile,a tavola ,da Bolzano a Palermo,il cibo e’ sempre autenticamente… ITALIANO.