Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Gianni Rodari, una figura singolare di scrittore per l’infanzia e giornalista, che non ha mai nascosto il suo interesse spiccatamente politico per una scuola democratica. In un periodo in cui non ci si vergognava di professarsi comunista, anzi molto spesso si trattata di un titolo di merito che apriva le porte al successo, soprattutto se ci si faceva strada tra gli intellettuali, Rodari scriveva: «Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo»[1].
Correva il 1973 e in Italia, come in Europa del resto, occorreva fare un enorme sforzo per democratizzare la scuola e, in generale, l’opinione publica, in modo da elevare i tassi di alfabetizzazione, che al sud erano ancora molto bassi.
Mi chiedo, talvolta, cosa avrebbe pensato Rodari dell’attuale evoluzione del web e della possibilità che oggi internet offre a chiunque – chiunque abbia un account in un social network – di prendere la parola e usarla per scrivere lapidari post, scagliati nella rete come fossero macigni, senza badare al fatto che «le parole hanno un peso», come ripeteva spesso quella prof di filosofia che ha traviato per sempre la mia esistenza. Chissà se Rodari avrebbe trovato così democratico un uso, spesso, così disinvolto del linguaggio e della parola per esprimere odio e risentimento nei confronti degli altri. Pensavo al legame tra Gianni Rodari e mia figlia, che frequentava una scuola dell’infanzia a lui intitolata, e pensavo al paradosso di un anno scolastico cominciato nel migliore dei modi, con le celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore.
È stata mia figlia a raccontarmi delle avventure di Cipollino, al suo senso di giustizia in un paese di ortaggi, lei parlava di citrulli per riferirsi ai cetrioli; mi parlava di un paese che impone leggi liberticide prive di senso, della solidarietà senza violenza, che permette a Cipollino di issare, alla fine, la bandiera della Repubblica sul castello dei malefico cavalier Pomodoro.
Ma poi pensavo alle modalità con le quali questo anno scolastico volge ormai al termine, a questa distanza imposta alla didattica, alle videochat, ai meeting chiusi nella propria stanza, allo zoombombing, questa indecente eventualità che imbecilli irrompano nelle classi virtuali e si masturbino, pensavo alle schede, che mia figlia rifiuta, da fare a casa con i genitori in preda all’esaurimento nervoso e ad una inquietante solitudine in cui i bambini sono lasciati.
Pensavo ancora a Gianni Rodari, al suo impegno politico e letterario in favore di scuola laica, antifascista e democratica, a lui che credeva, come molti in quel periodo, che la liberazione degli uomini e delle donne dal giogo di ideologie liberticide fosse imputabile ad un difetto di cultura, di alfabetizzazione e per questo dedicò tutta la sua vita ad educare le persone nella fase più delicata della loro formazione, l’infanzia, per innestare con semplicità, ma molta persuasione, valori concreti come la solidarietà, l’amicizia, la bellezza della natura.
Ai tempi di Rodari la scuola era al centro di un dibattito serio, inevitabilmente politico, in cui gli studiosi assegnavano unanimemente a questa agenzia di formazione un posto centrale nello sviluppo della personalità dei cittadini, l’unica possibilità di attivare sentimenti sociali, morali, civili e, al tempo stesso, permettere ai figli dei contadini e degli operai di appassionarsi allo studio per poi ambire a diventare professionisti, l’orgoglio dei loro genitori. Oggi, invece, la scuola è l’ultima delle preoccupazioni del nostro governo: aprono le fabbriche perché bisogna produrre, aprono le chiese perché bisogna ristorare l’anima, riapre tutto, ma le scuole restano chiuse e per la formazione dei nostri figli ci affidiamo ad una didattica che ha la distanza, ovviamente sociale, come criterio operativo.
Bisognerebbe chiedersi, dunque, ora che questo anno scolastico volge ormai quasi al termine, se oggi, più che mai in seguito all’emergenza del Coronavirus, che ha imposto la necessità di reinventare la didattica per affidarla a internet, proprio il terreno di coltura dell’analfabetismo funzionale, che ha indicato come soluzione una didattica che richiede, con gravi conseguenze anche per la loro salute, di essere iper e interconnessi, siamo diventati veramente più democratici, come voleva Rodari.
[1] G. Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973, p. 6.
Gli altri due articoli dell’autore sulla scuola dopo il Coronavirus