La scuola italiana tra classismo e inclusione: il caso di via Trionfale a Roma

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Scuola di via Trionfale a Roma
Scuola di via Trionfale a Roma

Suvvia, diciamo la verità, da quando siamo diventati così democratici e inclusivi? Del resto, siamo nel pieno del periodo delle iscrizioni e i genitori sono alle prese con le visite agli open day dei vari istituti presso cui iscrivere i propri figli, angosciati per la scelta di un futuro che, certo, non si preannuncia così roseo e, in fondo, la scuola è davvero determinante da questo punto di vista.

Insomma, siamo sinceri, tutti vogliamo il bene dei nostri figli e quanti vorrebbero che i propri figli frequentassero, a cominciare dalla scuola, ambienti sani, genuini, autentici, benestanti, facoltosi, sperando nell’effetto contagio, piuttosto che numerosi, disagiati, con ragazzi problematici, figli di criminali, criminali essi stessi, ragazzi stranieri che non parlano la nostra lingua e rallentano la programmazione, studenti autistici che lanciano banchi per aria e richiedono attenzioni speciali da parte dei docenti, temendo, anche in questo caso, che i figli possano essere contagiati da abiezione morale e disabilità?

Forse non sono tanti i genitori che hanno simili pensieri – voglio essere ottimista – ma, purtuttavia, ci sono, ve lo assicuro, e il punto è che la scuola, anche quella di via Trionfale a Roma, che ha discriminato gli alunni in base al censo (ma si usa ancora questo termine?), o meglio, in base alla stratificazione sociale tra classi ricche, dell’alta borghesia (ma esiste ancora la borghesia?), e classi povere (ma non sarà una strategia per generare l’autocoscienza marxista?), in realtà non sta facendo altro, come tutte le scuole di ogni ordine e grado della Repubblica italiana, che ciò che le è stato chiesto da qualche anno a questa parte, cioè fare incetta di iscrizioni, assecondando gli stakeholders e venendo incontro alle esigenze degli utenti, che, in una logica di mercato, fanno richieste ben precise, alle quali le scuole rispondono con l’offerta formativa, talvolta perdendo il senso di quello che è il ruolo principale cui i docenti devono in primo luogo ottemperare, e di cui sono professionisti, cioè quello di educare.

Di questa triste storia, che purtroppo la scuola di Roma ha fatto emergere, inserendo ingenuamente, nel PTOF, la carta d’identità dell’istituto, la distinzione, a scopo meramente descrittivo dicono i referenti, di carattere socio-economico, sono due gli elementi che vanno evidenziati: in primo luogo, la deleteria abdicazione della logica educativa a favore della logica di mercato, che genera una guerra intestina tra scuole e circoli didattici, i quali mettono in campo le strategie più sottili per strappare gli iscritti ai concorrenti, strategie che, se non riescono a far emergere le proprie virtù, attraverso le vetrine e gli open day, in cui i docenti spendono l’anima per dare, gratuitamente, un appeal alla propria scuola, allora giungono a infangare e denigrare il lavoro dei colleghi degli istituti rivali, fino a scatenare il pettegolezzo, la gratuita maldicenza, la calunnia.

In fondo, non è una novità che alcune scuole, nonostante le indicazioni di quei PTOF più attenti ad indicare l’omogeneità tra i criteri di formazione delle classi, generino poi nei fatti classi di serie A e classi di serie B, non tanto sulla scorta della dichiarazione dei redditi dei genitori, che ufficialmente non è ancora richiesta, ma sulla base dei desiderata degli utenti, una sorta di automatismo che introduce una richiesta pesante da parte degli stakeholders nel meccanismo d’iscrizione, il cui diniego potrebbe essere determinante, qualora non fosse rispettato, nel passare ad altro istituto.

È in questo clima sfibrante di continua campagna elettorale, del resto i buoni esempi ci vengono dalla tribuna politica odierna, che si muove la scuola, prona ad una logica che la vede completamente asservita, anche economicamente, agli utenti, perdendo di vista quello che, tra una lezione e l’altra, deve essere il compito principale per la nostra società, cioè costruire il futuro, ma farlo attraverso i valori del pluralismo, dell’inclusione, della solidarietà, del dialogo, perché questo significa educare.

L’altro aspetto interessante, che emerge dal tentativo, maldestro peraltro, della scuola di via Trionfale a Roma di discolparsi dall’accusa di classismo, è quello di ritenere che la nota esplicativa, facente riferimento alla distinzione tra un’utenza con reddito medio-alto e un’altra composta da famiglie povere e di immigrati, fosse una mera descrizione di fatto della consistenza socio-economica dei nuclei familiari che insistevano sul territorio legato a quell’istituto e che non avesse affatto intento discriminatorio.

Ecco, qui la questione è, forse, dal punto di vista morale un po’ più grave, perché non è legata alla deriva presa dall’istituzione scolastica, ma è legata ad un uso inconsapevole, probabilmente per scarsa educazione al linguaggio, che tutti noi facciamo dei termini e dei concetti che adottiamo quotidianamente per etichettare e descrivere, nonché dei parametri che adottiamo, con neutrale scientificità, per classificare, catalogare, non solo fatti, ma anche persone, nella presunzione di non accedere ad una dimensione discriminatoria.

Ciò che ci manca, e forse questo ci rende ancora razzisti, come ho argomentato in altre circostanze tra le righe di questo giornale, è un’adeguata attenzione a ciò che il linguaggio costruisce per mezzo di categorie, etichette, cioè una dimensione costruttivistica del linguaggio, che nel mentre viene usato, genera regole, esclusioni, inclusioni, e la consapevolezza che ogni stereotipizzazione non è moralmente irrilevante, ma è foriera di pregiudizio nel momento stesso in cui viene utilizzata.

Nel 1971 lo psicologo e sociologo americano Philip Zimbardo ideò un esperimento sociale, narrato nel libro L’effetto Lucifero e trasposto nel film del 2001 Das Experiment di Oliver Hirschbiegel, con il quale divise i suoi studenti in “guardie” e “carcerati”, facendoli interagire in un luogo che richiamava il carcere vero, ma dopo una settimana fu costretto a interrompere l’esperimento perché i ragazzi ai quali era stata affibbiata l’etichetta di guardia avevano cominciato a picchiare duro i poveri detenuti (erano solo studenti, loro compagni), i quali erano emotivamente distrutti.

Ecco, l’effetto dell’etichettamento, fittizio, meramente linguistico, in quel caso generò una sorta di autocoscienza e personificazione di un ruolo, con conseguenze reali per le persone, ma per fortuna era un esperimento e fu prontamente interrotto. La scuola, invece, non può permettersi interruzioni, né tantomeno può permettersi di diventare il luogo in cui far esplodere ed esacerbare conflitti, siano essi sociali, culturali o economici, per cui forse sarebbe il caso che i docenti ritornino ad essere i protagonisti, con la loro professionalità, con il loro esempio, con l’attenzione che ripongono quotidianamente nel linguaggio e nella pratica, dei processi di educazione, nella consapevolezza che spetta solo a loro il compito di costruire, con senso di responsabilità, una realtà sociale sempre più pluralistica, democratica e inclusiva.