La mancata qualificazione della Nazionale al Campionato del Mondo in Qatar è un fallimento anche della Serie A. Perché la Rappresentativa azzurra è una delle espressioni più significative del livello più alto del calcio italiano, certo non l’unica e nemmeno in stretta dipendenza gestionale ma senz’altro collegata sotto il profilo tecnico. (qui “Serie A in Più by Poggi“, la rubrica di Gianni Poggi su ViPiù con i suoi commenti pre e post partite della Lega Calcio di serie A, ndr)
Il fallimento degli azzurri è, quindi, il fallimento anche della Serie A e della Lega. Un ente, questo, che amministra una attività produttiva di spettacolo sportivo che fattura gran parte dei ricavi del calcio italiano: tre miliardi e mezzo di euro sui quattro e sette di fatturato totale del settore. La A produce lo 0,2 del PIL nazionale e un introito fiscale di oltre un miliardo per lo Stato.
Il peso economico non è marginale, anche se – rapportato ai ricavi delle leghe di altri paesi europei – non è alla pari di Gran Bretagna, Spagna e Germania. Il vero problema è, invece, quello tecnico perché la qualità del calcio italiano è inferiore non solo a quella delle nazioni al top continentale ma anche di quelle di seconda fascia. Come anche di alcuni paesi sudamericani e, ormai, delle migliori espressioni del football africano.
Il calcio italiano è povero di talenti nazionali, non ha una leva pronta al ricambio generazionale, è indietro nei settori giovanili, negli stadi e nell’organizzazione. Inoltre nei campi della Serie A (salvo un paio di eccezioni) si gioca un brutto calcio, vecchio concettualmente, troppo tattico e atleticamente inadeguato agli standard europei. Per garantire lo spettacolo, le società della A ricorrono sempre di più alle prestazioni di giocatori stranieri: su 553 giocatori in forza ai nostri club, 343 non sono italiani. Il 62 per cento. I nostri calciatori non trovano quindi lavoro nella massima serie e sono in gran parte costretti a giocare in B. Il riflesso di questa situazione è, appunto, la Nazionale, in cui dovrebbero confluire i migliori talenti e, invece, il C.T. è costretto a mandare in campo giocatori che non hanno un rango internazionale.
Guardiamo la squadra che è stata eliminata dalla Macedonia del Nord: quattro azzurri giocano all’estero e solo tre in top club (il portiere Donnarumma e il play maker Verratti nel Paris Saint Germain, l’altro regista Jorginho nel Chelsea e il terzino sinistro Emerson Palmieri nell’Olympique Lione); solo tre appartengono a squadre nelle prime quattro posizioni della classifica (Barella e Bastoni nell’Inter, Insigne nel Napoli); altri tre sono in forza a squadre di seconda fascia (Florenzi e Mancini alla Roma, Immobile alla Lazio) e uno (Berardi) al Sassuolo, che nemmeno partecipa alle Coppe continentali. Allargando l’analisi ai cambi e agli assenti, aumenterebbe – è vero – la rappresentanza dei migliori club nazionali (Chiesa, Locatelli, Chiellini e Bonucci sono juventini, Di Lorenzo del Napoli e Tonali milanista) ma Raspadori e Scamacca sono del Sassuolo, Joao Pedro del Cagliari e Spinazzola della Roma.
Oltre alla appartenenza a una squadra di livello europeo (che comunque conta, eccome) bisogna valutare certi giocatori in base alla condizione e all’età. Donnarumma è in crisi di identità e non è titolare nel Psg, Barella è fuori condizione e nell’Inter gioca solo perché non ha alternative, Insigne è a fine carriera e perfino nel Napoli non è più inamovibile, Immobile è un bomber solo in Serie A, Raspadori e Scamacca sono due promesse, Joao Pedro è stato convocato per disperazione, Chiellini e Bonucci hanno trentasette e trentaquattro anni. Gli unici top player azzurri sono Verratti e Jorginho. Un attaccante di rango internazionale non ce l’abbiamo e la pre-convocazione di Balotelli la dice lunga.
Questa è la rosa a disposizione di Mancini, c’è poco da fare. Se i talenti sono pochi o proprio non ci sono, il Commissario Tecnico mica se li può inventare. Anche lui ha le sue colpe, è fuori di dubbio. La pretesa, ad esempio, di giocare con il modulo 4-3-3 senza avere giocatori all’altezza è stato un errore. Come insistere su gente cotta o fuori condizione tanto da essere accusato di eccesso di riconoscenza verso alcuni protagonisti della vittoria dell’Europeo. E, comunque, un allenatore di una Nazionale come quella azzurra, quinta nel ranking UEFA, che non riesce a battere quella numero 67, evidentemente non è l’uomo giusto al posto giusto.
La Nazionale che non si qualifica in due edizioni consecutive alla fase finale del Mondiale è lo specchio di una Serie A, che non ha più una propria squadra già nei Quarti di finale di Champions League, pur potendo i club – a differenza della Nazionale – disporre di rose in cui gli stranieri integrano i deficit di campioni italiani.
La eliminazione degli Azzurri ha fatto deflagrare situazioni per altro ben note a chi non si limita a un consumo settimanale del Campionato. I problemi sono contestuali e nascono dal dualismo fra la Federcalcio e la Lega di Serie A, sempre tentata dal rendersi autonoma dall’ente federale; dalla eterna frattura fra i soci della Lega, i cui club più importanti vorrebbero tanto uscirne e diventare soci fondatori della Super Lega continentale; dalla conseguente impossibilità di fare un progetto di riforma dell’intero sistema calcio nazionale; dalla crisi innestata da due stagioni di convivenza con i limiti imposti dal Covid; dalla disastrosa situazione economica delle società, indebitate, in parte al limite del fallimento e sopravvissute solo grazie a pratiche border line di plusvalenze.
Bisogna fare attenzione. L’esclusione della Nazionale dal Campionato del Mondo ora è l’ultimo dei problemi.