L’antica Roma, si sa, faceva bella mostra di sé sia per le potenzialità militari, ma anche per l’incredibile passione dei suoi abitanti per cibo e vini. Normalmente i ricordi sono tramandati da scritti che con occhio più o meno compiacente guardano i ricchi e nobili romani a bearsi delle bontà delle loro terre, con alcuni che arrivavano sentirsi male, o a vomitare per poi mangiare di nuovo. Ma chi c’era dietro questi fasti trimalcioniani? Chi era dietro alle cucine, o addetto alla coltivazione nei campi? Costoro non erano personaggi, e come tali destinati a non essere al centro della memoria tramandata.
Capita poi che nei nostri tempi si scopra un’antica villa romana a Portoferraio, sull’isola d’Elba, e vi si ritrovino degli orci che hanno impressi un marchio di difficile lettura:
Gli storici, però, hanno immediatamente interpretato l’iscrizione, che nella sua interezza recita: Hermia Va. Ms. Fecit. Tradotto in termini attuali sarebbe: Hermia (di) Va(lerio) M(arco) s(ervo) fece. Ci sono ovviamente dibattiti sulla VA che potrebbe essere letta VAV, ma tutti concordano col fatto che si tratti di un antico signore romano di nome Marco Valerio, e tra questi si opta facilmente su Marco Valerio Messalla. Solo che di tali Marco Valerio Messalla la storia romana ne annovera almeno 9, tutti più o meno consoli in epoche diverse.
Ma concentrandoci su Hermia, si capisce che si tratti di uno schiavo, e uno schiavo che si ‘arrogava’ il diritto di imprimere il proprio nome su un orcio!
Una storiografia un po’ particolare ha voluto leggere nel nome dell’iscrizione un cantiniere della villa dell’Elba. Ci si immaginava quindi un importante capo nelle cucine, o addirittura un raffinato agronomo che offriva il proprio vino o olio alle delizie del nobile romano. Una storiografia perpetrata forse anche da una qualche intenzione di marketing, che ha offerto e forse continua ad offrire degustazioni di vino Hermia, fermentato con lunga macerazione in anfore di terracotta!
Nulla di più falso! Gli studi più approfonditi hanno rivelato la fattura di questi orci, di terracotta non toscana, bensì di origine vulcanica, quindi realizzati o nella media valle del Tevere o nella zona dell’antica Minturnae. Città prosperosa, quest’ultima, sorta sulla riva destra del Garigliano e dotata di uno dei più importati porti navali del Mediterraneo.
La provenienza non sorprende: l’antica Minturnae produceva manufatti in terracotta, grazie alla ricchezza di materia prima disponibile nella zona. Si pensi che i manufatti provenienti da Minturnae, in particolare quelli provenienti dalle officine di C. Piranus Sotericus (con tanto di marchio di fabbrica), sono stati ritrovati in tutto il Mediterraneo, fino a Tolone.
E si pensi anche che fino alla seconda guerra mondiale nella zona di Scauri sussistevano ancora tre fabbriche di mattoni in terracotta, che esportavano in tutto il mondo via nave, fino in Argentina. L’ultima, la Sieci, ha chiuso nel 1981.
Tornando ad Hermia, dunque, smessi i panni di agronomo/cantiniere, riesce ad imporre il proprio nome sugli orci che andranno anch’essi in giro per il Mediterraneo. Suona un po’ strano che un servo, dunque uno schiavo, avesse tanta libertà di azione. Ma chissà, magari godeva della protezione del proprio signore, o forse avrà goliardicamente e di nascosto inciso il proprio nome, sempre nel rispetto del suo padrone. Rimangono tutte ipotesi, a noi, però piace immaginarcelo come un mastro operaio nelle officine nella piana di Minturno-Scauri. E chissà, essendo stato così bravo un giorno il padrone l’avrà premiato e lasciato libero. E lui si sarà incamminato sulla via Appia, alla ricerca di chi ricordava il suo nome letto da qualche parte!