La Tempesta Vaia un anno dopo: una ferita sanguinante

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«È una ferita che continua a sanguinare, quella provocata in Altopiano dalla tempesta Vaia. E che ha bisogno di cure urgenti». Ricorre alla metafora “medica” Daniele Zovi, forestale in pensione, scrittore e divulgatore (la sua ultima fatica si intitola “Italia selvatica”, Utet), accademico olimpico e profondo conoscitore dei boschi dell’Altopiano. Boschi che conosce da una vita, essendo nato a Roana nel 1952 e che, oggi, continua a veder soffrire a causa della tempesta di vento che si è abbattuta sul Veneto tra il 26 e il 30 ottobre del 2018.

Perché parla di ferita che sta ancora sanguinando?

«Perché ha provocato un danno subdolo. Ovunque, nell’Altopiano ci sono macchie di bosco crollato nascoste da fette di foresta più grande. Si tratta di alberi caduti che molto difficilmente verranno recuperati. La raccolta di tronchi fatta in questi mesi ha privilegiato superfici dove il danno è superiore e che garantivano una quantità di recupero maggiore».

Ovunque, nell’Altopiano ci sono macchie di bosco crollato nascoste da fette di foresta più grande. Si tratta di alberi caduti che molto difficilmente verranno recuperati. Credo che, nonostante il grande lavoro fatto dai boscaioli, la metà degli alberi sia ancora a terra.

Daniele Zovi (www.danielezovi.it)

Che danni possono provocare questi piccoli gruppi di alberi caduti?

«C’è un danno economico, perché non saranno immessi sul mercato. Creano intralcio agli escursionisti. Dal punto di vista ecologico, però, da un lato hanno un valore positivo perché gli alberi a terra marciscono creando biomassa e humus. Dall’altro, invece, attraggano il bostrico, un piccolo coleottero che si infila sotto la corteccia e scava il tronco. Questo insetto minaccia anche le piante rimaste in piedi. Gli studiosi stimano che se non si farà niente, nel giro di tre anni perderemo tante piante quante quelle cadute».

Riesce a stimare quanti sono questi alberi da recuperare?

«Credo che, nonostante il grande lavoro fatto dai boscaioli, la metà degli alberi sia ancora a terra. Questo vuol dire che nei prossimi anni assisteremo ad una invasione del bostrico, come quella avvenuta negli anni ’20, dopo la Grande Guerra».

A proposito, la tempesta Vaia è stata paragonata alla distruzione provocata dagli eventi bellici, è d’accordo?

«No, non è un paragone corretto. Se ragioniamo in termini di scala, e consideriamo l’Altopiano come il territorio che va dal Brenta all’Astico, ibombardamenti della Grande Guerra hanno danneggiato l’80% degli alberi. La tempesta Vaia ha distrutto solamente il 10% della foresta, facendo moltissimi danni, paragonabili a quelli bellici, in zone circoscritte, come la Marcesina, la Val d’Assa e Campomulo. Un paesaggio di distruzione che si è ripetuto dalla Carnia al Trentino».

La piana di Marcesina un anno fa, all’indomani della Tempesta Vaia.

In queste aree, come si può ricostruire il bosco?

«Alcune zone non preoccupano, si potrebbe lasciar fare tranquillamente alla natura. Però può essere anche l’occasione per introdurre specie che l’uomo aveva cancellato privilegiando l’abete rosso, ovvero le latifoglie come il tiglio, il faggio, l’acero, la betulla, il ciliegio selvatico… alberi tipici della fascia prealpina».

Perché sarebbe importante reintrodurre queste specie?

«Dobbiamo pensare al nostro bosco in termini di arricchimento di biodiversità. Sono alberi che danno maggiore garanzie di resistenza nei confronti delle future perturbazioni: come saranno? Non lo sappiamo. Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. L’unica cosa certa è puntare alla biodiversità, che vuol dire imitare la natura. L’errore di privilegiare l’abete rosso è statofatto prima del cambiamento climatico oggi così evidente. Se pensiamo a Vaia, infatti, sono caduti milioni di abeti in tutto il Veneto, ma faggi e larici sono rimasti in piedi. Ma la foresta del futuro non vuol dire solo piante».

Cos’altro servirà?

«Spazi vuoti, radure, dove troveranno cibo cervi, camosci, caprioli, lepri, forcelli e galli cedroni».