Ormai i vicentini non se ne accorgono nemmeno. Fa parte del panorama. È lì da ottantacinque anni quell’orribile cubo rosso ceralacca del Palazzo delle Poste, da sempre e per sempre estraneo ad una delle più caratteristiche contrade del centro. Con la sua mole e la sua improbabile estetica ha deturpato e deturpa un contesto urbano di tutt’altra storia e tipicità.
Il Palazzo delle Regie Poste e Telegrafi è costruito fra il 1930 e il 1935 ed è uno (ma il più vistoso) dei lasciti a Vicenza di quella architettura con cui il Fascismo, nel nome di un Razionalismo che scimmiottava le forme di Roma imperiale alla ricerca di identità solo formale, ha inquinato con prepotenza l’immagine di strade e piazze storiche di molte città.
La facciata del palazzo dà su contrà Garibaldi, toponimo di quella che tutti chiamano invece piazza delle Poste non ostante sia stata dedicata nel 1867 all’Eroe dei due mondi. Ma piazza non è, bensì una via lunga cento metri che collega Piazza del Duomo alle due storiche contrade Pescherie Vecchie e Muscheria.
Fino al subentro di Garibaldi la contrà si chiamava “delle Coparie” perché ospitava molte macellerie (dove, appunto, si “copavano” gli animali) e sulle due fronti c’erano altrettante cortine di palazzetti, senza pregio particolare ma simili nella loro esteriorità e coerenti alla architettura non monumentale della città.
Il fianco ovest della contrada è prospiciente a edifici medievali: il Duomo quattrocentesco (che la sovrasta con la cupola palladiana) e la romanica torre campanaria, che si innesta sui resti di un fortilizio che difendeva la cattedrale. Nell’isolato, alle spalle del littorio edificio postale, sorge un altro importante reperto medievale: le case-torri della famiglia Loschi (secolo XIII), che sono le uniche fortificazioni dell’epoca rimaste pressochè intatte. Non solo: confinanti con esse ci sono due palazzi rinascimentali attribuiti alla scuola di Lorenzo da Bologna.
Insomma è un bel pezzo di Vicenza quello dove i reggitori in orbace autorizzano l’edificazione del palazzone postelegrafonico facendogli spazio a suon di abbattimenti di quanto, da secoli, sussisteva in loco. Si tratta degli stessi reggitori che demoliscono dalla mattina alla sera l’Arco del Revese per far passare il Duce e il suo corteo in visita e le palazzine a fianco della Loggia del Capitaniato, violentando la creazione palladiana per creare, su un lato di essa, un affaccio in dissonante stile littorio. Il “progresso” non si ferma davanti a nulla.
Il progettista del nuovo fabbricato è l’architetto romano Roberto Narducci, allievo di Marcello Piacentini (il vate dell’architettura fascista), pubblico dipendente del Ministero delle Comunicazioni e noto per aver firmato quaranta stazioni ferroviarie (fra cui quella di Vicenza, altrettanto brutta, nel 1948) e una decina di edifici postali. Ovviamente Narducci non ci pensa proprio a contestualizzare il palazzo e si adegua allo stile littorio imperante.
Rileggiamo quanto scrive il professor Renato Cevese nel 2006: “l’architettura del Narducci occupa lo spazio di edifici antichi e vecchi, taluni dei quali molto belli, sacrificati per l’ignoranza e l’insensibilità del professionista e, ciò che è ancora più grave, per l’ignoranza e l’insensibilità degli amministratori pubblici nostrani” (R. Cevese “Per Vicenza 1945-2008” Cierre Edizioni). Continua Cevese, a proposito del progetto dell’architetto ministeriale: “è davvero insopportabile, essendo espressione del ‘classicismo’ del ventennio mussoliniano, che imponeva la semplificazione delle modanature di finestre, di porte, di cornicioni, ecc. ecc., nonché delle stesse colonne cui il professionista si sentì in obbligo di ricorrere essendo chiamato a costruire nella città del Palladio”.
Il risultato è davvero pessimo, con quella facciata biancorossa scandita dai marmi nell’ordine inferiore e dalla citazione di serliana al piano primo, il quale, come quello superiore, è appesantito da una greve tinteggiatura rossa. Le facciate laterali, poi, sono banalizzate dalla assenza di qualsivoglia elemento decorativo.
In sintesi: il palazzo delle Poste è un edificio davvero brutto nella sua papocchiata estetica e dirompente nel tessuto architettonico circostante. Incredibile ma vero, l’edificio è tutelato da vincolo storico-monumentale decretato dal Ministero dei Beni Culturali in quanto “esempio significativo dell’architettura del Ventennio”! La sua ristrutturazione quindi è assolutamente vietata.
Ciò non ostante il Comune di Vicenza rilascia nel 2018 alla vicentina Dervall Immobiliare s.r.l., sede in corso San Felice (fra i soci ci sarebbero Luca Marzotto, e familiari dell’imprenditore Gianfranco Pavan, ex vertice di BPVi), che è proprietaria dei due piani superiori dal 2016, una licenza di ristrutturazione e di variazione di destinazione d’uso da uffici a residenziale. Da notare che, invece, il piano terra è stato acquistato due anni prima da Unicredit Leasing s.p.a., la quale, a sua volta, lo ha dato in locazione a Poste Italiane.
Tornando alla ristrutturazione, il progetto dello Studio Albanese contempla la realizzazione di appartamenti di lusso modificando, però, pesantemente la facciata posteriore a ridosso delle torri Loschi e degli adiacenti edifici quattrocenteschi.
Alcuni privati ricorrono al TAR e ottengono lo stop della concessione comunale, evidentemente illegittima. I lavori di ristrutturazione e restauro sono bloccati e ne fa le spese il cittadino perché l’ufficio postale del piano terra è trasferito in un indecoroso e angusto container esterno, che doveva essere provvisorio ed invece è lì da due anni e rischia di restarci chissà quanto.
Qual’era la proposta di Cevese per il mostro di contrà Garibaldi? Drastico: “Liberiamoci del Palazzo delle Poste e diamo la piazza ai mercatini” era, appunto, il titolo del suo scritto.
Qui gli articoli della nuova rubrica “La Vicenza degli orrori”
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