Quando pubblico e privato si comportano (male) allo stesso modo. Parco Querini è il parco più bello di Vicenza, ha una storia importante ed è un’oasi di verde affascinante nel centro della città. Peccato che, su due suoi lati, incombano edifici che per volumetria, altezza e aspetto gli mancano totalmente di rispetto. A occidente troneggia un gigantesco condominio incastonato fra il Bacchiglione e l’Astichello, i due fiumi che delimitano il parco. A nord fanno da parete i blocchi multipiano dell’Ospedale San Bortolo con le loro monotone facciate, funzionali alla tipologia nosocominiale ma assolutamente dissonanti con la serena immagine neoclassica dello storico giardino. Il pubblico e il privato, pur portatori di interessi eterogenei e di differenti motivazioni, si sono posti nei confronti di questo spettacolare bene della cittadinanza con la stessa indifferenza e cioè senza rispetto per la sua tipicità e per la sua storia.
I palazzoni sovrastano con la loro mole le cortine di alberi che recingono Parco Querini, il maxi condominio coprendo il sole al tramonto e i padiglioni ospedalieri precludendo la vista delle montagne. Come si fa a non provare dispiacere (o orrore?) vedendo avvilita da questi vicini invadenti la grande bellezza del giardino?
Parco Querini è molto più antico di entrambi, nasce nel primo ventennio dell’Ottocento prendendo il posto di una vasta zona agricola di proprietà dei conti Capra. Chiariamo, quindi, che i Querini non c’entrano nulla: la terra era dei Capra (la stessa famiglia della Rotonda) ed è Antonio Capra a decidere di trasformare il bosco di gelsi nel giardino del palazzo avito, costruito nel Cinquecento e con la facciata principale su contrà San Marco. Un lungo viale fiancheggiato da statue partiva dall’ingresso posteriore e, attraversato l’Astichello su un piccolo ponte in pietra, concludeva il suo percorso rettilineo a ridosso della collinetta artificiale (che, nel suo ventre, conteneva una «giasara», locale ipogeo per conservare il ghiaccio) culminante nel tempietto a pianta centrale.
Un grande progetto, quello del conte Antonio, pensato per i valori spirituali non certo per quelli economici. Farsi il parco è di moda – è vero – in quegli anni, in cui i Valmarana realizzano quella piccola delizia del giardino che poi ha preso il nome del mercante veronese arricchito Salvi, e in cui la comunità vicentina dà un senso urbanistico ai pratoni di Campo Marzo tracciandovi il viale dei platani.
Nei secoli la proprietà si traferisce in via ereditaria coinvolgendo un Querini (che gli dà inappropriatamente il nome) e poi altre famiglie della nobiltà vicentina. Gli ultimi padroni, due nobildonne, propongono al Comune di donarne una parte alla città in cambio dei permessi edilizi per una lottizzazione sul rimanente. L’Amministrazione risponde picche e espropria tutto per un controvalore modesto. L’apertura alla cittadinanza è nel 1971.
L’Ospedale di San Bartolomio, vulgo Bortolo, sorge qualche decennio prima, nel 1775: la Serenissima decide di riunire i vari nosocomi della città in un unico edificio, l’ex monastero dei Canonici Lateranensi, a cui dà il nome di Ospital Grande degli Infermi e dei Poveri. Questo rimane nei confini dell’area religiosa per un secolo e mezzo, fino alla Prima Guerra Mondiale, quando Vicenza diventa città di immediata retrovia e le esigenze logistiche diventano diverse da quelle che erano prima necessarie per poche decine di migliaia di abitanti.
La vera esplosione del San Bortolo avviene nel secondo dopoguerra: reparto dopo reparto, lotto dopo lotto, blocco dopo blocco si espande alle spalle del vecchio monastero fino ad occupare tutte le aree disponibili. L’espansione trova un limite solo nel Seminario a est e, appunto, nel Querini a sud. Negli Anni Cinquanta, davvero perniciosi per l’urbanistica di Vicenza, non si è ovviamente pensato che sarebbe stato meglio decentrare un ospedale che doveva servire una città avviata ai centomila abitanti. Sarebbe bastato commissionare una perizia per farsi spiegare viabilità, parcheggi, logistica di una struttura ospedaliera del futuro. Ma allora (e anche dopo, a dire il vero) si pensava solo a costruire e a ricostruire.
La storia del condominio di contrà Chioare (la via si chiamava così perché c’era una fabbrica di chiodi ricurvi che servivano a stendere i tessuti dopo il primo lavaggio) è irreperibile. I fabbricati dovrebbero essere stati costruiti negli Anni Sessanta del secolo scorso, probabilmente durante le trattative per la cessione di una quota del parco. Così ne scrive Renato Cevese: «i grandi condomini di contrà Chioare, totalmente estranei all’architettura vicentina, voluti da chi badava soltanto al dio denaro e regolarmente approvati dalla Commissione di Edilizia e dal vertice dell’Amministrazione Comunale» (Per Vicenza, Cierre Edizioni). Non si può dar torto al professore: sono tre palazzi di sei piani ciascuno, disposti a U attorno a un ridotto verde centrale, basati su quella che doveva essere l’ultima porzione a sud del parco dei Capra. Guardandoli con Google Earth in 3D colpisce da un lato la loro altezza, che non ha pari in nessun edificio né prossimo né lontano, dall’altro la prospicienza ravvicinatissima al Querini, che senz’altro gratifica i condomini ma certo non gli ospiti del parco.
Purtroppo, la situazione è irreversibile. Il danno è fatto e il parco resterà mortificato da quel corollario per i secoli futuri. Ormai il panorama è quello, nessuno se ne cura e forse nemmeno lo nota.
Qui gli articoli della rubrica “La Vicenza degli orrori”
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