Nel folto gruppo di edifici «ex-qualcosa» che spuntano da per tutto nel Centro Storico di Vicenza città bellissima e che, abbandonati da decenni e in attesa di originali riutilizzi che mai arrivano, sono diventati ruderi, c’è una sotto-specie significativa quanto curiosa: quella degli ex-cinema.
Ce ne sono ben quattro e per tre di essi si può parlare di ruderi. Le ex-sale in questione sono il Cinema Arlecchino, il Palladio, il Corso e l’Italia. Che, attenzione, non erano cinematografi parrocchiali ma di prima e seconda visione. Sorgono a poche centinaia di metri l’uno dall’altro e anche da Corso Palladio e da Piazza dei Signori. Difficile, insomma non imbattercisi.
La fine dei cinema risale a venti-venticinque anni fa, quando la lunga concorrenza della televisione, cominciata mezzo secolo prima, riesce ad averla vinta: la gente ora e ogni anno di più non ha più bisogno di uscire di casa per guardare un bel film, se lo vede sul televisore domestico (il cui schermo la tecnologia lo ha fatto ingrandire via via quanto mezza parete) e le pay tv mettono in palinsesto le novità con sempre più breve ritardo rispetto alle prime visioni dei cinema. I quali cercano la rivincita sulla tv con le multisala, corredate da poltrone da salotto, da impianti sonori stereo e con effetti speciali e da schermi ad alta definizione. I cinefili se la godono, non altrettanto i frequentatori del fine settimana che non possono più entrare in sala a spettacolo iniziato né, soprattutto, fumare come dannati riempiendo il soffitto di puzzolente e tossica nebbia provocata dalla combustione delle sigarette e dalle esalazioni dei polmoni. E, tanto meno, possono spegnere le cicche sui velluti delle sedute o sulle moquette dei pavimenti.
Ma neanche i multiplex riescono a rovesciare la situazione, perché esplode il mercato dei dvd e i grandi network tv inventano un format alternativo al film, le serie televisive, che, oltre a essere spesso ottimi spettacoli, creano fidelizzazione nel pubblico con il meccanismo degli episodi (o puntate, per i non appassionati del genere).
Davanti a questa offensiva, che non è solo commerciale e di marketing ma anche culturale e generazionale, la fine dei cinematografi è inevitabile e le sale chiudono una dopo l’altra. La mazzata finale la danno pandemia, lockdown, zone di vari colori. Al cinema non si va più, nemmeno nelle multisala.
Vicenza non è estranea al fenomeno globale. Lo stop alle proiezioni in città è pressochè contemporaneo e investe tutte le categorie di sale, da quelle di prima visione a quelle parrocchiali. Oggi rimangono appena due cinematografi in centro (il multiplex Roma e lo storico Odeon), un paio parrocchiali (il San Marco e il Patronato) oltre a realtà periferiche come l’Araceli e il Primavera.
Il Palladio era l’unico cinema extra moenia, anche se di poco. L’ingresso è in viale Verdi, di fronte a quello del parcheggio che pure porta il nome del compositore e, soprattutto, del teatro abbattuto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, che stava proprio lì. Aveva una bella sala, moderna ed elegante, e vi si proiettavano quasi tutte le prime di blockbuster. Dopo la chiusura, via ai progettoni: era il momento delle sale gioco all’americana e del bingo e la riconversione del cinema sembrava decisa. Ma non è mai avvenuta per traversie degli investitori che sarebbe troppo lungo raccontare. Risultato? Porte sbarrate da anni, sporcizia, proteste del vicinato.
Ottimo biglietto da visita per i turisti che arrivano dalla stazione o lasciano l’auto nel parcheggio.
L’Arlecchino è poco distante, s’incunea sulla riva dello stagno del Giardino Valmarana-Salvi di fianco alla seicentesca Loggia neoclassica del Longhena. È l’ultima propaggine degli orrendi ex padiglioni della Fiera che, nel dopoguerra, hanno violentato il più elegante spazio verde del centro. L’Arlecchino non aveva la qualità del Palladio né le pellicole del livello del concorrente ma era una sala piacevole di seconde visioni. Fino agli anni Sessanta dello scorso secolo sul tetto si faceva cinema all’aperto. Quando ha sloggiato, ha goduto qualche anno di sopravvivenza riciclandosi come aula per corsi universitari. Ma, dopo l’inaugurazione della nuova sede dell’ateneo cittadino, è finito nell’abbandono e nel dimenticatoio. Come i confinanti padiglioni fieristici. Scontata quindi l’occupazione da parte di senza tetto e tossici e la conseguente sigillatura degli accessi.
Il Cinema Corso era il concorrente principale del Roma. Tutti e due centralissimi, distavano poche decine di metri. Il Corso era più piccolo ma aveva, come l’altro, il tetto che s’apriva d’estate. Di tutte le ex sale è la più visibile perché la sua facciata pseudo monumentale guarda su corso Fogazzaro, quasi di fronte a Palazzo Valmarana-Braga. E questo è un male perché lo stato di abbandono in cui versa è sotto gli occhi di tutti. Le porte a vetrata che vi danno accesso sono luride e schermate a malapena con paratoie di legno anti-intrusione. Uno spettacolo deprimente per i passanti. L’interno? Non si sa. Il progettone di recupero? Riutilizzo come centro commerciale di alto profilo, tipo Rinascente. Ottima idea ma risultati zero.
L’ultimo cinema abbandonato è quello che sembrava dovesse avere il destino migliore. L’Italia era una microsala piazzata all’angolo di contrà Pescherie Vecchie, di fianco al Palazzone delle Regie Poste. La sua unica attrattiva era la centralità, perché per il resto (arredamento, poltrone, spettacoli) non era certo un top. Nel suo caso il riutilizzo è andato a buon fine: la sala è stata trasformata in mega store di abbigliamento con un bel progetto (firmato dal designer Flavio Albanese) che ha coniugato le vecchie strutture tecniche con quelle commerciali. Purtroppo, è durato solo qualche anno e poi ha cambiato inquilini. Almeno questo non è un rudere.
Qui gli articoli della rubrica “La Vicenza degli orrori”
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