All’inizio del I secolo dopo Cristo i Romani danno a Vicenza, municipium da più di mezzo secolo, l’acqua corrente (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). Costruiscono un acquedotto lungo sette chilometri che assicura un rifornimento costante di venti litri al secondo fino all’interno della città, realizzando un’opera pubblica di ingegneria idraulica che resterà unico nella storia di Vicenza per mille e novecento anni, fino al 1912, fino a quando, cioè, comincia la costruzione dell’acquedotto comunale.
Prima e dopo, i vicentini usano acqua prelevata dai pozzi e questo dato evidenzia l’importanza della innovazione voluta dall’Urbe per l’oppidulum sulla Via Postumia, fedele alleato della dinastia giulio-claudia.
Dove vanno, i Romani, a trovare l’acqua da portare a Vicetia? Necessariamente a nord della città, nella fascia delle risorgive e, più precisamente, in quella che oggi si chiama Villaraspa, frazione di Motta in Comune di Costabissara alle porte di Caldogno.
Non esistono all’epoca sistemi meccanici di sollevamento dell’acqua e quindi il sito di presa deve essere ad una quota tale da generare un naturale deflusso fino al terminale cittadino. Il trogolo adatto è individuato nelle risorgive del Latason, in prossimità della Oasi di Motta, a quota quarantasei metri e cioè dieci più in alto rispetto al castellum aquae, la cisterna che si trova sul lato ovest del Foro cittadino. È stupefacente la capacità progettuale degli ingegneri romani, in grado di calcolare percorsi, pendenze e portate senza l’ausilio di computer e software.
Per capire le difficoltà incontrate nella progettazione dell’acquedotto, bisogna tener presente che la Vicenza romana è solo apparentemente situata su una struttura collinare, sopraelevata rispetto al piano di campagna circostante. In realtà la quota dell’abitato è la stessa dell’agro e il falso dislivello è stato generato dalla erosione dei fiumi che circondano la città. I progettisti devono quindi tener conto di una situazione geomorfologica particolare.
L’acqua scorre in una canaletta larga settantacinque centimetri e alta sessanta, all’inizio poggiata su muro e, con l’aumentare del dislivello, su arcate larghe circa tre metri e con altezza progressiva. Il percorso dell’acquedotto è pressochè rettilineo in direzione della città, attraversa le località Lobia e Brotton e entra nell’abitato nella zona di corso Fogazzaro. La scelta del tracciato è perfetta perché non ci sono ostacoli naturali né fiumi da valicare. Il Bacchiglione, infatti, non passa ancora in quell’area e, anzi, confluisce più a nord est nell’Astico.
Entrato in città l’acquedotto segue il cardo minor (quello di cui è visibile un lacerto sul fianco della chiesa di san Lorenzo), passa sotto la Via Postumia e sfocia nel castellum aquae, una vasca in cui l’acqua raggiunge un metro di altezza e da cui partono le diramazioni per gli utilizzi principali: fontane, abitazioni e, soprattutto, le Terme.
Sì, perché la costruzione dell’acquedotto è motivata proprio da quella contemporanea dell’edificio termale, a poca distanza dalla cisterna e a una quota di tre metri inferiore. Il sito è sul fianco est del Palazzo delle Poste, lungo contrà Pescherie Vecchie e quindi a ridosso del lato meridionale del Foro. Le acque superflue sono scaricate alle spalle delle Terme nel Retrone.
L’acquedotto romano sopravvive per tutta l’età imperiale, è abbandonato con le invasioni barbariche e l’opera va in rovina sia a causa di esondazioni di fiumi e torrenti limitrofi che del riutilizzo dei materiali edili per nuove costruzioni. Ciò non ostante, l’acquedotto è una delle pochissime vestigia romane ancora in parte visibili. Un tratto lungo centottanta metri, comprensivo di cinque arcate e una ventina di pilastri, è presente nella località Lobia e si può averne una visione ravvicinata perché è affiancato da una strada che prende il nome proprio dall’acquedotto. Ripercorre una parte del tracciato della via che affiancava l’opera e che, fin quando questa è rimasta in vita, prende il posto di quella repubblicana che corre più a ovest in coincidenza con la strada statale Pasubio in direzione dell’Alto Vicentino.
Altre parti residue sono visibili in corso Fogazzaro. Dopo recenti scavi sono stati lasciati a vista, grazie a lastre di vetro, alcune basi dei piloni di sostegno che stanno sotto il livello del marciapiede sul lato destro della strada. Altri resti, a monte e a valle, pur individuati e portati alla luce purtroppo sono stati poi sotterrati.
Lo spettacolo offerto dall’acquedotto romano doveva essere imponente. Si può immaginare questa lunga cortina di arcate che corre alta sulla campagna deserta e si addentra, trapassando le mura, nell’abitato, prima affiancando il cardo minor e poi sottopassando il decumanus maximus per sfociare nella vasca di raccolta dell’acqua.