Andrea Palladio: un nome che da cinquecento anni fa coppia fissa con Vicenza (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). Impostando una ricerca Google sul binomio saltan fuori ben tre milioni e mezzo di risultanze. La parola Palladio ricorre continuamente in città, spunta dappertutto. Così si chiamano il corso principale e una piazzetta confinante con la Basilica, che ovviamente è qualificata “palladiana” proprio in onore del suo progettista.
Mille attività commerciali e produttive locali hanno nella denominazione l’appellativo dato al giovane Andrea dall’umanista Giangiorgio Trissino: negozi, bar, agenzie di viaggi e immobiliari, industrie, società finanziarie, centri commerciali, imprese artigiane, studi professionali. E anche scuole, condomini, garage e parcheggi, cinema, impianti sportivi. Nelle Pagine Gialle ci sono una sessantina di utenze in cui compare il nome Palladio, forse per poca originalità dei vicentini, forse nella speranza che l’abbinamento porti lo stesso suo successo, forse per affetto e ammirazione per l’uomo che ha fatto grande e universalmente conosciuta la città. La città del Palladio, appunto.
A tante citazioni nel privato corrisponde, all’opposto, una penuria di dediche nel pubblico: corso, piazzetta, Basilica e basta. Gli antichi palazzi rinascimentali – come anche le ville extraurbane – portano i nomi dei committenti, altre opere (il Teatro Olimpico, l’arco delle Scalette di Monte Berico, il ponte sul Tesina a Torri di Quartesolo) non lo richiamano e nemmeno gli sono stati intitolati edifici costruiti nei secoli successivi. Par quasi che i vicentini lo abbiano voluto dimenticare e che, anche oggi, non si senta la opportunità di legare il suo nome a un’opera pubblica.
Questo atteggiamento per così dire postumo trova un pendant già nella Vicenza contemporanea all’archistar. Di quest’uomo, che già in vita è riconosciuto come artista di livello pari a quello dei grandi rinascimentali, i concittadini del XVI secolo conservano pochissime memorie tant’è che, del Palladio vicentino, si sa quasi nulla. Non se ne conosce l’aspetto né dove abbia avuto casa, si ignora ove fosse la sua bottega e, perfino, mancano una data certa e il luogo della sua morte.
Non è arrivato a noi un suo ritratto, o perché non è mai stato fatto o perché è andato perso, ed è davvero strano: Palladio collabora con molti pittori e i suoi nobili committenti – e alcuni di essi gli erano amici – secondo le usanze del tempo sono usi a farsi ritrarre.
La cosa più incredibile è che le sue spoglie siano scomparse. Sì, perché nel sepolcro presente nel Cimitero Monumentale della città c’è il corpo di uno sconosciuto! La vicenda risale alla metà dell’Ottocento, precisamente al 1845. Quindici anni prima Girolamo Egidio di Velo, nobile vicentino nonché archeologo e quindi fan di Palladio, dispone nel testamento un lascito di centomila lire venete da utilizzare per la costruzione di una tomba monumentale all’interno del camposanto in costruzione. Il progetto è affidato all’architetto Bartolomeo Malacarne, che però muore prima del completamento dell’opera ed è quindi concluso da Giambattista Berti e Giovanni Maria Negrin. Il gruppo scultoreo è firmato da Giuseppe De Fabris, artista nato a Nove e molto attivo in Vaticano.
Quando arriva il momento di traslare il corpo dell’architetto dalla tomba di famiglia nella chiesa di Santa Corona a quella in Cimitero, nasce il problema: all’interno si rinvengono una dozzina di salme non identificabili. La commissione deputata alla esumazione non sa che fare e a qualcuno viene la grande idea di individuare lo scheletro di Andrea Palladio in quello il cui teschio si distingue per dimensioni, grandezza delle ossa e spaziosità della regione frontale.
Sembra una barzelletta ma, purtroppo, non è così e, quindi, il 19 agosto (la data – anch’essa presunta – in cui ricorre il decesso) le spoglie mortali di un ignoto sono traslate in pompa magna nella cappella del cimitero e nuovamente sepolte nell’urna al centro del monumento. Il bello è che, ancor oggi, si continua a far finta che quella sia proprio la sepoltura di Andrea Palladio. E non si è mai prospettato nemmeno un esame necroscopico dei resti per cercare di capire a chi, almeno a grandi linee, potrebbero appartenere.
Questa trascuratezza post mortem dei vicentini per il loro concittadino più famoso potrebbe spiegarsi con il fatto che Andrea Palladio vicentino non era? C’è, infatti, da sfatare anche questa credenza: la città che ha dato i natali al grande architetto non è Vicenza bensì la vicina e non certo benamata Padova. Arriva sotto i Berici, infatti, quando ha già circa quindici anni e per motivi di lavoro: apprendista lapicida, lascia il datore di lavoro padovano (con cui è in contrasto) e si accasa nella bottega in San Biasio del costruttore Giovanni di Giacomo da Porlezza e dello scultore Girolamo Pittoni.
E se anche nella nuova città Palladio si forma, incontra un eccezionale mentore nel Trissino, ottiene le prime importanti commissioni culminate in quella delle nuove logge a rivestimento del Palazzo della Ragione, a un certo punto la sua fama supera i confini della città e lo porta a lavorare e a vivere a Venezia. L’antagonismo con la capitale, appena mascherato da un bon ton molto opportunistico, può essersi aggiunto alle origini patavine per motivare la freddezza berica verso Palladio? È possibile perché, all’epoca, le rivalità fra le città dello Stato da Tera della Serenissima sono ancora forti e radicate.
È provato, poi, che i committenti vicentini, sia pubblici che privati, non siano mai stati di manica larga nei compensi elargiti a Andrea e che nessun suo progetto di palazzo sia arrivato a compimento perché invariabilmente gli tagliavano i fondi. Sono altri due segnali che fanno sospettare che qualcosa non abbia funzionato del tutto nei rapporti fra Palladio e la sua città adottiva. Il detto nemo propheta in patria sembrerebbe molto appropriato.