Gli anni trenta del Cinquecento sono la decade in cui avvengono le svolte decisive della vita di Andrea Palladio (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). All’inizio del periodo ha poco più di vent’anni, è ancora uno scalpellino che lavora soto paron, sa leggere e scrivere in volgare, vive con gli altri lavoranti in bottega.
Le sue mansioni sono ancora modeste: realizza con la pietra i disegni dei maestri e i suoi lavori, ovviamente anonimi, finiscono nel quadro complessivo delle opere commissionate al laboratorio di Giovanni e Girolamo a San Biasio.
Cosa succede, allora, nel decennio in questione, per cambiargli la vita? A dir la verità, nulla di eccezionale o subitaneo, piuttosto una concatenazione di sviluppi che, anno dopo anno, lo portano a una sostanziale trasformazione sia umana che professionale. In parte per merito suo, in parte perché la fortuna lo aiuta.
La sua crescita gli consente, nel 1534, a ventisei anni, di sposarsi con Allegradonna, vicentina, orfana del falegname Marcantonio. Fa la cameriera nel palazzo della nobildonna Angela Poiana, che le assegna una ben modesta dote: un letto, una trapunta, lenzuola, pezze di stoffa. Andrea Palladio dovrà rimborsare la metà della dote se la moglie dovesse morire senza figli. Invece, di figli, ne arrivano ben cinque: Leonida nel 1535 e, negli anni seguenti, Marcantonio e Orazio, per finire con Zenobia e Silla. Notare i nomi scelti, tutti provenienti dalla storia greco-romana, non è certo un caso.
La famiglia trova casa vicino alla bottega, i primi tempi sono duri e, per cominciare a vivere meglio, Andrea e Allegradonna dovranno aspettare un bel po’. E, anche se sembra impossibile, le ristrettezze saranno per loro una persecuzione per tutta la vita.
In parallelo alla vita familiare del Palladio, si evolve quella professionale. Pur nella ricordata gradualità della sua crescita, è comunque stupefacente che, in pochi anni, riesca a diventare un architetto. Senza avere alle spalle studi o una bottega di famiglia, senza una formazione con maestri di rango nazionale, senza nemmeno una cultura che non sia quella tecnica e, per di più, appresa in laboratorio e in cantiere. Lui può anche dire, nel proemio ai “Quattro libri” che fin da giovane aveva una “naturale inclinazione” per l’architettura, ma questa può essere – al massimo – una condizione preliminare importante ma non è certo un fattore sufficiente a trasformare uno che spacca e sbozza le pietre in un progettista di palazzi, ville e chiese.
La genialità di un autodidatta. È questa, allora, la spiegazione, l’unica spiegazione. Un genio che assorbe tutto quello che ha attorno, dalla visione dei ruderi della romanità allo studio – magari clandestino – dei repertori, dai discorsi dei nobili committenti che girano in bottega ai racconti dei colleghi dei suoi maestri in visita a Vicenza, dai progetti di Giovanni da Porlezza (che, dei due paroni, è l’architetto) ai trattati acquistati dai librai di piazza dei Signori. Andrea assorbe, assimila e personalizza, crea una premessa tecnico-culturale, magari non strutturata ed eterogenea, al successivo salto di qualità.
Questo è lo step più difficile da salire. E qui entra in gioco la fortuna. Al momento giusto. Perché puoi pur avere la “inclinazione”, puoi pur essere un geniale autodidatta, puoi pur aver cominciato a progettare qualcosina in proprio, ma tutto ciò non basta per farti diventare un professionista completo e in linea con i gusti dei tempi. L’architetto rinascimentale deve conoscere anche materie che, in apparenza, nulla hanno a che fare con mattoni e disegni: prima di tutto la cultura dell’antica Roma, e non solo quella tecnica (come le opere di Vitruvio) ma anche la storia e la letteratura. Bisogna sapere il latino e aver fatto pellegrinaggio a Roma non per le indulgenze ma per vedere e disegnare le vestigia degli edifici imperiali. Serve entrare in contatto con gli intellettuali, gli artisti, gli stranieri. È importante, infine, capire le tendenze del mercato e essere pronti a concretizzare le idee dei committenti.
La fortuna di Andrea Palladio, a questo punto, è incontrare Giangiorgio Trissino, un conte vicentino di portata e conoscenze internazionali, dalla cultura umanistica tanto approfondita da rasentare in qualche caso la pedanteria, appassionato di architettura al punto di cimentarvisi come dilettante. Il Trissino lo incontra verso il 1535, probabilmente nel cantiere della sua villa di Cricoli, che sta modificando nelle forme della antichità classica. Non tutti sono d’accordo su questa circostanza, ad esempio lo storico dell’arte Lionello Puppi sostiene che né Andrea né la bottega erano fra le maestranze del cantiere e che, piuttosto, l’avvicinamento fra i due sia stato indotto dalle referenze dei nobili che davano lavoro ai paroni. La vicenda resta e probabilmente resterà per sempre nell’indefinito. È, invece, probabile che il conte lo abbia fatto entrare nella Accademia Trissiniana, la schola di classicismo (e non solo) che ha sede proprio nella villa di Cricoli. Qui Andrea potrebbe aver imparato il latino, qui aver ricevuto le lezioni sul mondo greco-romano.
Giangiorgio si fa mentore del promettente padovano, gli fa da tutor e da sponsor. Lo introduce nella nobiltà di Padova, quando abbandona Cricoli nel 1538, e poi in quella di Venezia, dove approda successivamente. Andrea Palladio è come un figlio per lui, gli ricorda forse quello di primo letto Francesco, di poco più vecchio e morto prematuramente. Nel 1541 lo porta con sé a Roma per completare il cursus honorum dell’ormai prossimo architetto.