È l’opera più famosa di Andrea Palladio: quattrocentosettantamila riscontri Google, ottanta repliche nel mondo, più di cinquanta pubblicazioni dedicate, patrimonio dell’UNESCO. È conosciuta universalmente come “La Rotonda” ma il suo vero nome è Villa Almerico Capra, da cinquecento anni campeggia appena fuori Vicenza da un poggio che sovrasta il Bacchiglione e prelude ai Colli Berici (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr).
È la “villa palladiana” per antonomasia ma non è né il prototipo né il modello delle fabbriche di campagna progettate dall’archistar. Quando gli è commissionata, nel 1565, Palladio ne ha infatti già ideate e costruite molte ed è l’architetto a cui si affida la nobiltà veneta per farsi la “seconda casa”. La Rotonda è, in realtà, la concretizzazione di un’idea e di un ideale rinascimentali: in essa si riuniscono le forme dell’antichità greca e romana e le proporzioni e le misure vitruviane, si fondono astrattamente un cubo e una sfera, il paesaggio diventa estensione dell’edificio, la vivibilità degli interni è assoggettata alle esigenze dello stile di vita del nobilhomo cultore dell’umanesimo. La Rotonda, insomma, è unica e diversa, è il realizzarsi più di un’astrazione intellettuale che di un fabbricato annesso a una proprietà fondiaria.
Le case di campagna si costruiscono in Veneto già dalla seconda metà del Quattrocento. La nobiltà veneziana investe i profitti dell’attività commerciale in un settore diverso, l’agricoltura. La Serenissima, oligarchia nelle mani della aristocrazia cittadina, valorizza i territori dello “stato da tera” (i domini della Terraferma) con una imponente programma di opere pubbliche di disboscamento e di bonifica. I fondi che ne risultano sono venduti a prezzi molto convenienti e acquistati dagli stessi nobili che avevano, come pubblici amministratori, deliberato i lavori facendoli pagare alla comunità. Nascono grandi proprietà fondiarie in tutta la regione e l’agricoltura comincia a rendere quasi quanto il commercio. I paroni devono trasferirsi, almeno periodicamente, dai loro palazzi in Laguna nelle proprietà dell’entroterra per controllare i lavori dei contadini e ne deriva la necessità di avere una residenza in loco. Non c’è una tipicità architettonica in questi nuovi edifici rurali, non si sente la necessità di bellezza ma solo di funzionalità.
Anche se qualche precedente c’è, pur non tipicizzato, l’invenzione della “casa di villa” è di Andrea Palladio. Ed è corretto usare l’espressione “invenzione” perché l’edificio-tipo palladiano non è, in realtà, la riproduzione di un archetipo classico bensì una “verosimiglianza”, un’ipotesi architettonica senza riscontri. L’idea originale e nuova è quella di rivestire una struttura residenziale extra urbana con le forme del tempio pagano, ma – sia chiaro – è il frutto di una mera congettura. Non è escluso che possa essere un geniale escamotage per assecondare le manie di classicismo dei committenti, come già era stato per le loro magioni cittadine.
Per centrare l’obbiettivo Palladio aggiunge alla facciata principale della villa, al culmine di una scalinata, un pronao, che introduce al portego. È il salone che attraversa longitudinalmente l’ordine primo, cioè il piano nobile, ai cui lati ci sono simmetricamente i due appartamenti padronali. Le commodità (cucina, cantina, magazzini, dispense, lavanderia) stanno al piano di sotto, al livello del piano di campagna. Il pronao retto dal colonnato è una forma tipica dell’architettura religiosa dell’antichità e la sua adozione in un contesto rurale è puro quanto geniale arbitrio palladiano.
L’altro contributo originale dell’architetto padovano è la aggregazione alla residenza padronale dei fabbricati dell’azienda agricola. In precedenza sempre a sé stanti, questi diventano ali (le “barchesse”) nella “casa di villa”.
La Rotonda ha ben poco di questo modulo. Nel progetto non ci sono gli edifici tecnici (che saranno aggiunti dopo la morte di Palladio) e la villa è solo la residenza del proprietario. Costui è Paolo Almerico, conte vicentino, referendario apostolico in Vaticano, religioso e quindi scapolo (anche se ha un figlio naturale), umanista. Rientra a Vicenza, vende il palazzo avito in città e mette a disposizione del progettista una sua proprietà a un miglio da Borgo Berga per costruirvi una sorta di palazzo di campagna, tant’è che Palladio lo inserisce nei “Quattro libri” fra gli edifici urbani. Il progetto è, nel contempo, geniale sotto il profilo formale quanto impossibile nella sua abitabilità. Andrea sceglie la pianta centrale, forma tipicamente religiosa, rinuncia alla facciata principale e, anzi, tali fa diventare tutti i prospetti applicando a ognuno scalinata e pronao. Ogni accesso introduce a un vestibolo che sfocia in un salone centrale che culmina in una cupola. In pianta si identificano le forme di una croce inscritta in un cerchio, nell’alzato un cubo che interseca una sfera. La maggior parte del piano nobile è occupata da queste stanze, per quelle destinate alla residenza resta ben poco spazio: il primo piano serve da granaio. In una casa così ci può stare decentemente una sola persona, non una famiglia.
La genialità di Palladio di estrinseca anche nel raccordo con il contesto ambientale: le facciate sono rivolte ai punti cardinali per consentire la vista completa dei paesaggi (le montagne, la collina, Vicenza e la pianura verso Venezia) e per intonare alle stagioni la illuminazione naturale degli interni. L’armonia fra villa e territorio è evidente anche dopo cinque secoli ed è miracolosamente rimasta intatta e preservata.
La costruzione della Rotonda dura quasi quarant’anni ed è ultimata dai nuovi proprietari, Odorico e Mario Capra. A Palladio succede il discepolo Vincenzo Scamozzi, che ne altera la originalità aggiungendo una barchessa sul lato nord e modificando la cupola (semisferica nel progetto) sul modello di quella del Pantheon. Più avanti saranno aggiunti agli interni stucchi e affreschi.