“Da naturale inclinazione guidato mi diedi nei miei primi anni allo studio dell’architettura”. Questo è l’incipit del trattato di Andrea Palladio I quattro libri dell’architettura, edito nel 1570. L’archistar mette subito in chiaro che tutto è cominciato da sé stesso, da una spontanea e connaturata predisposizione al progettare e al costruire (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). Se non l’avessi avuta questa “inclinazione” – sembra puntualizzare - sarei rimasto uno scalpellino per tutta la vita.
Il discorso non fa una piega: nel Cinquecento mica si va all’università per prendere una laurea in architettura e, se uno non è bravo e portato, può andare in bottega quanto vuole ma, al massimo, diventa paron.
Come riesce Andrea, fiolo di Pietro munaro, apprendista lapicida nella bottega davanti al monastero di San Biasio dei soci Giovanni di Giacomo da Porlezza, costruttore, e Girolamo Pittoni, scultore, a farsi autodidatta in quella materia per cui si sente portato?
Ribadito che scuole non ce ne sono, ancora adolescente può solo partire dalla osservazione di quello che fanno i suoi paroni, che, pur non essendo chissachè, in città hanno parecchio lavoro sia nel privato che nel pubblico e nel religioso. Mentre impara a riconoscere e a lavorare i materiali edili (marmo, pietra, legno), Andrea Palladio sbircia Giovanni e Girolamo che progettano e disegnano, dà un’occhiata ai repertori di edilizia che ci sono in laboratorio, ascolta i discorsi e le richieste dei committenti.
E poi c’è l’esperienza “sul campo”, nel caso in cantiere, dove assorbe le tecniche e le tempistiche, i fondamentali ma anche gli accorgimenti del mestiere (non ancora “arte”) del costruttore. E, siccome ha la “inclinazione”, assimila elabora e assembla tutte queste nozioni che gli derivano dalla pratica. Sicuramente i paroni si accorgono che Andrea è un passo più avanti rispetto agli altri giovani della bottega e che manifesta delle doti anche nelle semplici mansioni che gli sono assegnate in cantiere, lo tengono d’occhio e lo seguono.
Non è escluso che ci sia dell’utilitarismo nel privilegio che riservano a Andrea: un giovane così promettente può diventare una risorsa per il loro laboratorio. E, così, lo aiutano in tutti i modi, dandogli alloggio quando muore prematuramente il padre, appoggiando la sua iscrizione alla fraglia dei muratori scalpellini e scultori nel 1524 affidandogli la realizzazione di quote sempre più importanti dei progetti. I dodici anni che Andrea trascorre nella bottega di San Biasio sono fondamentali per la sua formazione.
Andrea Palladio, poi, si guarda attorno in città: come ha già fatto durante il suo breve apprendistato padovano, ora conosce e studia Vicenza, il nuovo contesto architettonico che ha a disposizione. La città, nei primi decenni del Cinquecento, ha un aspetto prevalentemente gotico. Molti edifici del centro sono stati costruiti o ristrutturati nel secolo precedente e quello stile (che è dominante nella capitale Venezia) è ancora quello preferito dai committenti. Le facciate sono rosso mattone, perché tale è il rivestimento facciavista, o a tinte sgargianti, perché i proprietari producono e commerciano seta e così richiamano i colori dei drappi che escono dalle loro imprese. Pochi anni dopo sarà proprio Andrea a cambiare radicalmente l’aspetto di Vicenza, trasformandola in uno scenario in cui il bianco è dominante e s’impone il chiaroscuro al posto della policromia.
Nelle sue peregrinazioni cittadine Andrea conosce direttamente la romanità (il tema culturale centrale del Rinascimento) in architettura. Ha infatti a disposizione i resti del Teatro Berga, opera pubblica poderosa costruita nel primo secolo dopo Cristo e arrivata ad avere cinquemila posti. Dopo quindici secoli è in rovina, ne restano in vista solo alcune parti perché gli sono state costruite sopra abitazioni orti giardini e perfino un palazzo, quello dei Gualdo. I marmi preziosi che ricoprivano il teatro sono stati saccheggiati e riutilizzati per nuove costruzioni. Ma la visione generale è ancora possibile e Andrea disegna quelle vestigia, ricostruisce la pianta e gli alzati, ne studia le proporzioni classiche.
Di romano, a Vicenza, sono rimasti anche due ponti, quello degli Angeli e quello San Paolo. Fanno parte anch’essi della sua osservazione, li disegna, ne desume le tecniche progettuali e costruttive.
L'attenzione di Andrea per il classico non è casuale. Ha capito che il mercato si sta orientando verso quello stile, nella scia del recupero dell’antico romano e greco, il tema principale del Rinascimento non solo in architettura. In bottega i nobili, che sono i committenti dei lavori di Giovanni e Girolamo, cominciano a prospettare la svolta, anche per dispetto alla Serenissima che rimane invece vincolata al gotico. La sua “inclinazione” per l’architettura prende un indirizzo forse prima commerciale che culturale, Andrea capisce, cioè, che deve specializzarsi nelle forme classiche perché lì è il futuro della professione.
In bottega ha un’occasione formidabile per il nuovo indirizzo della sua formazione. Per qualche tempo è ospite di maestro Giovanni, suo parente, il grande architetto veronese Michele Sanmicheli, reduce da una lunga esperienza nella Roma di Giulio II in cui ha assistito di persona alla riscoperta dei grandiosi edifici imperiali, al recupero di sculture finite addirittura sotto terra, al nascere del collezionismo di opere classiche. Michele ha anche conosciuto i grandi artisti che lavorano per il Papa: Bramante, Sansovino, Antonio da Sangallo, Michelangelo. Nel laboratorio di San Biasio Andrea ascolta, interessatissimo, la testimonianza di Sanmicheli, le sue descrizioni, i suoi suggerimenti. E accetta l’invito a visitare Verona, dove i resti romani sono ben più numerosi e meglio conservati.
Le premesse per la sua trasformazione da artigiano a artista sono state poste, ora serve un talent scout, uno sponsor che faccia emergere Andrea dalla bottega. Sarà, di lì a poco, Giovan Giorgio Trissino del Vello d’Oro.
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