Vicenza romana comincia a cambiare e ad avviarsi verso la fine della sua vita dopo la metà del quarto secolo dopo Cristo (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). Il cambiamento non è radicale come quello verificatosi a cavallo delle due ere ad opera prima della Repubblica e poi dell’Impero e che ha fatto diventare un villaggio di paleoveneti un oppidum con tutte le caratteristiche di una città romana. Vicetia resta, infatti, sostanzialmente immutata e le novità si limitano appena a due, entrambe legate all’arrivo in città del Cristianesimo. La nuova religione è il più rilevante elemento innovatore della città dopo la sua romanizzazione.
Sono due chiese a cambiare, seppur marginalmente, l’immagine della città, inserendovi due edifici di culto che non hanno alcunché di romano nella loro ideologicamente semplice morfologia, così lontana dalla maestosità di un Foro o di un Capitolium.
La chiesa dedicata ai santi Felice e Fortunato, i fratelli vicentini martirizzati ad Aquileia, prende gradualmente il posto di una delle necropoli extra urbane, quella che occupa l’area a lato del ramo della Via Postumia verso Verona. I primi cristiani vi inumano i loro morti a fianco dei pagani, poi arrivano le spoglie di san Felice (il fratello, invece, finisce a Chioggia) e, sopra al suo sepolcro, si costruiscono edifici sempre più grandi passando dalla semplice aula alla chiesa a tre navate.
L’altro edificio di culto si innesta invece in pieno centro, a un passo dal Foro, sovrapponendosi a una domus in un’area fra le più lussuose della città. Curiosa questa trasformazione dal civile al religioso proprio in un punto in cui il tessuto urbano è storicamente destinato a zona residenziale. La disomogeinità fra i due stili architettonici dev’essere stata violenta e quindi difficilmente spiegabile.
Siamo alla fine del Trecento dopo Cristo e l’antica Vicenza comincia a perdere le stigmate di città romana. La vita dei vicentini non cambia subito perché l’economia locale tiene e la sua posizione lungo la via che congiunge Aquileia e Milano la rende militarmente e commercialmente un centro importante. Ma fra la fine del II e i primi decenni del III secolo anche Vicetia, come gran parte dei municipia, è stata colpita da una grave crisi economica che comporta l’arrivo di curatores rei publicae, cioè di “commissari straordinari” di nomina imperiale che prendono il posto dei quattuorviri, i magistrati locali.
Nei secoli seguenti Vicenza scompare dalla scena della storia ma non ci sono tracce di decadenza urbana anche se il contesto sta mutando rapidamente e cresce ovunque la instabilità conseguente alla crisi dell’Impero romano. La città è però degna di una sosta dell’imperatore Teodosio che proprio nell’occasione, il 27 maggio 391, emana tre costituzioni del Codice che porta il suo nome.
Vicenza si salva anche dalle prime invasioni barbariche dei Goti e degli Alemanni ma non da quella degli Unni di Attila a metà del quinto secolo. Si riprende però subito e, anzi, ne consegue un fervore edilizio e sociale testimoniati dalla ricostruzione della Basilica di san Felice e Fortunato, finanziata anche da sponsor quali erano i fedeli ricordati nel pavimento musivo dell’epoca. Allo stesso periodo risalgono i mosaici più belli della Vicenza romana, rinvenuti sotto piazza Biade, che rappresentano scene di caccia in immagini policrome.
Ma questi sono davvero gli ultimi anni di vita di Vicetia. La città decade progressivamente, si riduce l’abitato, diminuisce la popolazione. La ricca città con un teatro da cinquemila posti, un acquedotto lungo sette chilometri, mura e ponti, strade lastricate, terme e domus eleganti torna il villaggio paleoveneto che era stato prima della romanizzazione.
Lo si deduce dalla stratigrafia. Come si legge in “Vicenza romana” (a cura di Franco Mattiello. Edizioni Messaggero) “la scarsa crescita stratigrafica è forse indice di una vita meno florida di altre città vicine come Verona e Padova. Con la caduta dell’Impero di Occidente nel 476 d.C. gli edifici di Vicenza romana vengono progressivamente abbandonati e rasi al suolo. La città si trasforma in una comunità più agraria che urbana; gli spessori di terra nera che giacciono sulle vecchie pavimentazioni romane sono il risultato dello scarico in situ di materiali prevalentemente vegetali e per un periodo Vicenza torna a essere un insediamento di capanne di legno”.
Una Vicenza bella come quella romana ci sarà solo mille anni dopo, quando un giovane architetto padovano rivestirà i palazzi della città proprio con quelle architetture monumentali che l’avevano abbellita durante il dominio di Roma.