Quindici secoli, millecinquecento anni. Tanti ne devono passare prima che Vicenza innovi radicalmente il suo aspetto com’era già accaduto, a cavallo fra il primo secolo avanti Cristo e quello successivo, con l’avvento della romanizzazione (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr). Un villaggio paleoveneto era diventato una città dotata di mura, strade, acquedotto, edifici pubblici, luoghi di culto, teatro e domus.
Dopo la caduta dell’Impero anche Vicenza era decaduta, aveva subìto rovinose invasioni barbariche, si era ristretta tornando un villaggetto. Aveva ripreso importanza con i Longobardi e i Carolingi, aveva poi seguito l’evoluzione politica e amministrativa delle città italiane nel corso del Medioevo. Le dimensioni e l’urbanistica erano rimaste quelle di epoca romana, non invece l’architettura: gli edifici dell’antichità erano stati smantellati, i materiali edilizi riutilizzati, nessuna costruzione di pregio li aveva sostituiti.
Ci sono, è vero, alcune chiese, sorte sulla spinta dell’approdo di numerosissimi ordini religiosi in città; molte torri-palazzo, ove risiedono le famiglie ricche e nobili; alcuni edifici pubblici e la nuova cerchia di mura. Ma le prime novità nella scaena urbis coincidono con l’affermarsi del gotico, lo stile architettonico prevalente nella capitale: Venezia. A cui Vicenza si è dedita nel 1404, ultimo atto di un assoggettamento che è una costante nella politica cittadina, dagli Ezzelino ai padovani, dai Visconti agli Scaligeri. Vicenza non riuscirà mai a esprimere una signoria.
La città si presenta al XVI secolo pronta a un grande salto di qualità. Supera senza particolari problemi la bufera della Lega di Cambrai e fa impennare la propria economia con i successi nel settore tessile, prima di tutto nella produzione della seta (di cui diventa leader europeo) e anche in quella della lana. Le imprese tessili sono di proprietà delle grandi famiglie nobili, nasce un ceto di imprenditori locali che viaggiano esportando le proprie merci e importando idee, gusti e stili di viti. Questi nobili, per di più, hanno il dente avvelenato con Venezia, che non li ha ammessi nel Libro d’oro del Patriziato della Serenissima, e hanno accumulato un forte desiderio di rivalsa verso la Capitale.
Soldi, idee nuove e modelli di vita diversi, oltre a un antagonismo più che altro esteriore con Venezia, sono i fattori che innescano una innovazione profonda della città. Fra l’altro cambiandole l’aspetto. E come? Rivestendo o ricostruendo i palazzi in gotico fiorito, lo stile dominante in Laguna, secondo un inedito Classicismo che richiama le forme delle architetture greco-romane, proprio quelle dell’antica Vicetia.
Il caso vuole che la richiesta edilizia della nobiltà vicentina trovi un interprete e un realizzatore di valore mondiale in uno scalpellino padovano, Andrea figlio di Pietro “della gondola” mugnaio, che Giovan Giorgio Trissino, intellettuale e politico appartenente ad uno dei casati più ricchi e autorevoli della città, trasformerà in pochi anni in un’archistar. È lui che lo scopre fra le maestranze che stanno costruendo la sua villa in Cricoli, che lo istruisce e gli fa conoscere i modelli architettonici dell’antica Roma, che dovranno essere quelli per costruire la “nuova Vicenza”. Giangiorgio dà all’allievo perfino un cognome, perché Andrea non ha nemmeno quello. Ma un architetto di successo non può farne a meno: Palladio, allora, com’era chiamata Atena, dea della sapienza e delle arti, quand’è raffigurata in armi.
Il patriziato vicentino si fa ammaliare dalla vogue neoclassicista, che la eleva dal commercio e dal latifondismo a ceto intellettuale, e si scatena in commissioni a Palladio di progetti di palazzi urbani e ville di campagna. La stessa comunità cittadina (per altro in mano allo stesso giro di famiglie) ne rimane affascinata e lo incarica di rivestire il Palazzo della Ragione con logge ispirate al nuovo stile. È la migliore decisione di tutti i tempi di un’amministrazione pubblica vicentina.
Il neoclassicismo diventa una mania e assume talvolta profili grotteschi come quando i nobili si fanno ritrarre in busti e statue a mo’ di imperatore romano o quando fondano un’accademia di intellettuali chiamandola niente meno che Olimpica. Questa avrà, almeno, l’enorme merito di aver affidato al consocio Palladio la progettazione della replica al coperto di un teatro romano. Altra grande bellezza della città rinascimentale.
Di questo fervore artistico e architettonico dà conto, almeno nelle intenzioni, una mostra (“La fabbrica del Rinascimento”) ospitata nella Basilica Palladiana di Vicenza dall’11 dicembre 2021 al 18 aprile 2022.
Organizzata dal Comune, sotto lo sguardo del sindaco Rucco e dell’assessore alla cultura Simona Siotto, e da Marsilio arte, curatori Guido Beltramini Davide Gasparotto e Mattia Vinco, la mostra, inaugurata alla presenza del ministro Renato Brunetta, riunisce ottanta opere (pitture, sculture, incisioni, documenti, modelli lignei) che dovrebbero dare il quadro del lavoro del capofila Palladio, di due pittori (Paolo Veronese e Jacopo Bassano) e dello scultore Alessandro Vittoria, più o meno coetanei e attivi negli stessi siti vicentini, sia contestualizzandoli nell’ambiente artistico tardo-rinascimentale italiano che nella realtà socio-economica cittadina.
Ottima (anche se non originale) l’idea, la realizzazione invece lascia l’impressione che si poteva fare di più. Bastano trequarti d’ora per arrivare all’uscita e quanto esposto non è un granché. Anche il lodevole intento di dar conto contemporaneamente di committenza, produzione progettuale e artistica e valore attualizzato delle opere riesce solo in parte e si concretizza soprattutto per allusioni più che per materiali esposti. Manca una completa e profonda contestualizzazione. Che senso ha, ad esempio, magnificare la committenza cittadina e non dire che nessun progetto edilizio privato di Palladio è stato completato perché i committenti non gli davano i soldi per finirlo? O che i suoi lavori erano compensati col braccino?
Non è probabilmente una mostra che farà grandi numeri quanto a visitatori, l’appeal è quel che è, non c’è molta promozione e la pandemia fa il resto.
Sul punto è nata una polemica innescata dal consigliere comunale di minoranza Raffaele Colombara, che ha denunciato i pochissimi visitatori registrati nelle prime due settimane di apertura e il conseguente rischio di un flop, e l’assessore alla Cultura Simona Siotto che, forse facendosi prendere un po’ la mano, ha parlato in un’intervista televisiva di “boom di presenze”.
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