La violenza nelle carceri, l’analisi di Giovanni Schiavon già presidente del tribunale di Treviso: la pena ha una funzione rieducativa non solo punitiva

In questi giorni è tornata ad essere attuale la gravissima vicenda delle violenze consumate dalla polizia penitenziaria in alcune carceri italiane (soprattutto a Santa Maria Capua Vetere, ma non solo, nella primavera del 2000, quando le telecamere interne dell’Istituto di pena (video di Domani, ndr) hanno ripreso immagini di pestaggi e di soprusi che non avremmo proprio voluto vedere). Infatti, forse con colpevole ritardo, il Capo del Governo e il Ministro della Giustizia hanno voluto far visita al carcere campano per rendersi conto di persona di ciò che è avvenuto (e che spesso avviene) e per tentare di elaborare un adeguato rimedio idoneo ad evitare il ripetersi di disordini.

Mi pare opportuna, allora, qualche riflessione di fondo.

Il punto fondamentale che deve essere sempre ricordato prima di affrontare il  tema delle problematiche carcerarie è che la nostra Costituzione (come quella  di tutti gli Stati civili e moderni) proclama che la funzione della pena non è  solo retributiva, cioè intrinsecamente afflittiva per aver commesso reati, ma è anche e (soprattutto) rieducativa: cioè deve, comunque, consentire alle persone che stanno scontando una pena detentiva di rientrare nella società e di ricostruirsi un’identità e una vita nuove. Lo proclama espressamente l’art. 27, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Il tema delle carceri è inquinato in partenza da un’arcaica e barbara cultura, che stenta a morire, di inconfessata vendetta della società nei confronti di chi si è reso responsabile di reati  e che si vorrebbe istintivamente emarginare per renderlo definitivamente inoffensivo: basti pensare a quanto sia comune, non solo nel linguaggio corrente, ma addirittura in quello politico, l’uso dell’orrenda espressione “buttar  via le chiavi della cella” per definire lo stato d’animo di chi, intimamente, vorrebbe confinare i detenuti all’interno di strutture carcerarie dalle quali non potessero più uscire. Nessuno può negare l’esistenza di questo preconcetto rifiuto della società verso chi ha subito una detenzione e nessuno, o quasi, manifesta una reale disponibilità, anche solo morale, ad aiutare coloro che, scontata la pena, si apprestano a ritornare alla vita normale.

Eppure, è risaputo che la situazione reale è ben diversa da quella ideale e che le strutture carcerarie italiane non solo non sono in grado di rieducare nessuno, ma, al contrario, sono esse stesse scuole di delinquenza, dove i detenuti imparano pratiche illegali nuove e prima sconosciute. Ma se un carcerato è costretto a vivere in un ambiente degradato e sovraffollato non potrà imparare nulla che lo possa riabilitare e, a pena scontata, non potrà fruire di nessun strumento utile per ricostruirsi un’esistenza. Anzi, sarà ancor più emarginato da una società perbenista, ipocrita e poco incline al perdono e, dunque, finirà per aumentare la sua carica di rabbia e, con essa, un istintivo rifiuto di rientrare in un contesto umano, sempre più percepito come ostile.

In questo contesto deve essere valutata la gravità degli episodi avvenuti in molte carceri italiane (come a Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, di cui tanto si parla in questi giorni). Le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti, anche con l’uso di bastoni e manganelli, hanno rappresentato un intollerabile vulnus per i cardini della nostra Costituzione, soprattutto perché hanno contribuito ad allontanare la popolazione carceraria dalla percezione dei principi fondamentali di uno Stato di diritto, secondo i quali nessuno, neppure il peggior delinquente, è irrecuperabile. I comportamenti violenti della polizia carceraria, dunque, altro non sono che un tradimento della Costituzione, come, giustamente, ha sottolineato il ministro Cartabia, ma anche del mandato professionale di coloro che sono preposti alla tutela dell’ordine all’interno degli istituti di pena e che dovrebbero, per primi, aiutare i soggetti condannati, destinatari, per previsione costituzionale, non solo di doveri (verso la società che il loro comportamento ha offeso),  ma anche di diritti.

E’ certo vero che il lavoro di agente carcerario è particolarmente frustrante proprio per il difficile contesto ambientale in cui si deve svolgere, ma è anche indiscutibile che tale circostanza non può costituire una scusante per le violenze (molte delle quali sottaciute all’opinione pubblica) e per i soprusi che si consumano nelle carceri. I tanti video (tratti dalle telecamere di videosorveglianza interna) ci hanno mostrato scene di inaudita, sistematica e pianificata violenza: uomini in divisa che colpiscono detenuti inermi, per il solo fatto che protestavano (ma senza particolari escandescenze) per le restrizioni alle visite familiari imposte dopo l’insorgere del COVID e per l’assenza di adeguate protezioni igieniche. Lo spirito di rivalsa della polizia penitenziaria è stato evidente e, per un Paese civile, ciò deve rappresentare una vera e propria vergogna.

Il problema è, essenzialmente culturale: il corpo di polizia penitenziaria, che pure opera – va ribadito – in un ambiente indiscutibilmente difficile e ostile, deve essere professionalmente molto più preparato e deve capire che la popolazione carceraria sta pagando un debito con la società, ma, ancor più degli altri esseri umani, deve poter contare su una adeguata rieducazione umana, che rappresenta l’unica sua garanzia per il suo positivo reinserimento nella società, a pena scontata.

Le rappresaglie paramilitari servono, invece, a incattivire i carcerati, che, inevitabilmente, si allontaneranno sempre più dal contesto civile che li dovrà riaccogliere.

La gravità della vicenda sta anche nel fatto che essa ha dimostrato una preoccupante compattezza del corpo della polizia penitenziaria nel mettere in moto una (collaudata, a quanto pare) macchina di sopraffazione e di violenza, assolutamente sproporzionata rispetto alle proteste (anche comprensibili) dei carcerati.

Questa è la ragione per la quale hanno destato sconcerto le dichiarazioni del senatore Salvini che, a fronte dei pianificati e ripetuti pestaggi, dai quali ogni Paese civile dovrebbe prendere le debite distanze, si è affrettato a ricercare simpatie politiche nei corpi di polizia, esprimendo solo ed esclusivamente solidarietà agli uomini in divisa (al netto delle solitemele marce)…: come fossero stati loro le vittime dei detenuti.


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