Se vogliamo dirla tutta, non c’è un prodotto agricolo che ha origine in Italia.
Non è il grano, proveniente del Medio Oriente, né il pomodoro che arriva dall’America e neanche l’ulivo che giunge dalla Turchia e la vite che viene dal Caucaso. Anche i prodotti derivati non hanno il marchio italiano, perché il pane si faceva già nel Medio Oriente, l’invenzione della pasta spazia tra l’Asia e la Grecia, alla quale va attribuita la scoperta dell’olio di oliva.
Vero è che, nel corso del tempo, siamo stati bravi a valorizzare questi prodotti e a farne un marchio, cioè il Made in Italy, che molti intendono come prodotti originari del nostro Paese.
Ma è così? Vediamo.
Produciamo delle ottime paste alimentari con grano duro (semola) che può essere di origine italiana o miscelata con prodotti esteri, perché il nostro grano non è sufficiente a soddisfare la produzione e anche perché il grano estero è, per buona parte, più ricco di proteine (glutine), il che consente una migliore tenuta della cottura. Paradossalmente, potremmo dire che – anche grazie al grano estero – abbiamo quegli ottimi spaghetti che sono il vanto del Made in Italy che trova ampio apprezzamento nel Mondo, tant’è che, nel 2020, l’export di pasta italiana è aumentato del 16% rispetto all’anno precedente. Da rilevare che una varietà di grano duro, il Creso, che produciamo e utilizziamo da circa 50 anni, è stato ottenuto da una varietà di grano italiano con combinazioni nord africane – sottoposto a irradiazione combinata di neutroni e raggi gamma nei laboratori del CNEN (Enea), poi incrociato con una variante messicana. Insomma, il Creso è un prodotto Made in Italy, non proprio italiano, che ha avuto successo anche all’estero per qualità e maggiori livelli produttivi.
Negli ultimi venti anni la produzione di mais italiano è quasi dimezzata e dobbiamo supplire con importazioni.
Il mais è componente della alimentazione animale ma non ne abbiamo a sufficienza, così importiamo mais Ogm, del quale, però, è proibita la coltivazione sul territorio nazionale, ma non l’importazione e la commercializzazione (furbizia italica). Ci sono problemi con la produzione di mais non Ogm, perché soggetto ad attacchi di funghi che producono micotossine. Questo spiega la massiccia importazione di mais Ogm, con effetti paradossali: ulteriore deficit della bilancia dei pagamenti agroalimentare (1 miliardo per la sua sola importazione), difficoltà delle aziende agricole e di trasformazione a stare sul mercato, impulso alle multinazionali per la coltivazione di mais Ogm e a quelle produttrici di pesticidi per combattere le micotossine del mais tradizionale. L’altro componente dei mangimi è la soia Ogm: ne importiamo circa 10 mila tonnellate al giorno.
Da decenni si usano mais e soia Ogm senza che sia mai stata segnalata alcuna problematica sanitaria o veterinaria direttamente riconducibile al loro uso.
L’87% dei mangimi venduti in Italia contiene OGM. Farne a meno metterebbe a rischio l’intera produzione zootecnica del Made in Italy. Potremmo avere penuria di carne, latte e uova.
Oggi, con l’invasione della Ucraina e la guerra dichiarata dalla Russia, le scorte di mangimi sono ridotte a 2 mesi di utilizzo. Una produzione nazionale di mais e soia Ogm avrebbe consentito una maggiore autonomia. E’ un problema che dovrebbe affrontare l’attuale governo, visto che, per decenni, quelli precedenti hanno fatto orecchie da mercante, contribuendo a perpetrare una paura derivata dall’ignoranza.
(dal quotidiano LaRagione del 16 marzo 2022)
Primo Mastrantoni, Aduc