L’alternanza scuola-lavoro e i PCTO sono la dichiarazione del fallimento dei ruolo rivestito da sempre dai Licei, la presa d’atto della circostanza secondo la quale il Liceo non forma più professionisti e professioniste, uomini e donne che, in virtù della loro formazione teorica, andranno a svolgere un lavoro “di concetto”.
Ecco questa corrispondenza tra formazione liceale, che permette di accedere con determinate conoscenze all’università, e svolgimento di una professione, che s’intende acquisita stabilmente fino alla pensione, non può essere più garantita dalla nostra società, dallo Stato che eroga quella formazione. Accade, quindi, che lo Stato stesso, per evitare che questa discrasia sia avvertita come un fallimento e che generi conflittualità tra le giovani generazioni a causa di una promessa non mantenuta, decida di abituare i ragazzi e le ragazze già dal Liceo alla manovalanza, a rapporti di lavoro molteplici e subordinati.
A ben vedere, l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro e dei PCTO nelle scuole professionali non ha suscitato grandi scandali e resistenze, giacché quelle istituzioni scolastiche, statali o regionali, nascono per definizione con l’obiettivo specifico di indirizzare i ragazzi e le ragazze verso il lavoro manuale e artigianale, che svolgeranno in futuro, secondo lo schema di demarcazione che da Giovanni Gentile in poi non è stato modificato nel suo assetto costitutivo.
La novità, invece, è stata quella dell’articolazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro nelle scuole tecniche e poi nei Licei, cioè per quei ragazzi e per quelle ragazze per le quali il mondo del lavoro dovrebbe essere un orizzonte da incontrare solo alla fine di un percorso universitario che li vedrà completamente assorbiti nello studio, tra corsi di laurea, master, dottorati di ricerca e corsi di specializzazione per diventare esperti di ciò che hanno studiato.
Tuttavia, evidentemente qualcosa non ha funzionato nel mondo del lavoro e, più in generale, nel raccordo tra scuola, università ed economia, per cui si è dovuto introdurre un correttivo che ha natura evidentemente ideologica, infatti l’alternanza scuola-lavoro non è che un tentativo di operare ciò che nelle scienze cognitive viene definito “reframing”, vale a dire un processo di riprogrammazione dello schema mentale dei ragazzi e delle ragazze abituandoli/e alla flessibilità e ad impattare con una giusta dose di rassegnazione contro un progetto che molto probabilmente non andrà in porto, ciò che poi con un abile slittamento semantico entra come ritornello nella retorica della resilienza.
Del resto, chi è in una certa confidenza con la storia ricorderà il funzionamento di uno dei più coerenti apparati ideologici di Stato sotto il regime sovietico. Dopo la Rivoluzione del 1917 in Unione Sovietica c’era la necessità di avviare una industrializzazione forzata, in modo da colmare un gap produttivo nei confronti del resto dell’Europa e anche per ovviare all’arretratezza tecnologica che il paese registrava. Il sistema statale centralizzato, fatto di piani quinquennali di sviluppo economico e industriale, in accordo ai suoi apparati repressivi e ideologici, architettò un sistema scolastico che sfornò dal 1917 al 1931 una marea di uomini da impiegare nelle fabbriche.
Soddisfatta quella necessità, dal 1931 al 1957 ci fu una sensibile inversione di tendenza, per cui la scuola secondaria rappresentò un modo per offrire una preparazione adeguata allo studio universitario, giacché era necessario formare in quel frangente ingegneri e persone da collocare nei vertici della macchina statale e dare lustro alla superpotenza sovietica.
Il piano funzionò discretamente, al punto che, però, dopo il 1957 ci si trovò con un surplus di ragazzi che prendevano la via dell’università con alte pretese lavorative e, di conseguenza, anche politiche, per cui sarebbe stato necessario anche un potenziamento dell’apparato repressivo dello Stato e così si optò per una nuova inversione di tendenza, introducendo dal 1958 una forma di alternanza scuola-lavoro negli istituti secondari, i quali presero una direzione “poli-tecnica”, oggi diremmo agevolmente STEM (dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics), con lo scopo di: «Permettere una migliore ripartizione dell’impiego, e magari a riassorbire una parte della disoccupazione; […] secondariamente, di calmare l’impazienza degli adolescenti che davanti a loro vedevano chiudersi le porte delle facoltà universitarie; infine, volevano trasformare i licei sovietici in vere scuole socialiste»[1].
Ora, non è difficile constatare che la nostra situazione politica e statale sia molto simile a quella dell’Unione Sovietica, sia in relazione agli apparati repressivi sia in relazione agli apparati ideologici. Sotto i nostri occhi si consuma una tragedia di proporzioni storiche: al di là delle tipologie di contratto precario che aumentano fittiziamente i tassi di occupazione, nel marzo 2022 l’ISAT ha registrato un tasso di disoccupazione che si attesta all’8,3% e un tasso di inattività che arriva al 34,5%; il numero di giovani sottoccupati e sovra-istruiti, secondo un rapporto che risale al 2018, raggiunge livelli allarmanti e richiede misure urgenti da adottare già nella scuola superiore, infatti la Legge n. 145 che ha disposto la ridenominazione dei percorsi di Alternanza Scuola-Lavoro in PCTO è del 30 dicembre 2018.
È chiaro, dunque, il ruolo strategico che la scuola, oggi più di ieri, assume nella società: essa, da un lato, si mostra prona al mercato, obbedisce supinamente, con la complicità industriosa dei suoi operatori (i docenti), ad una esigenza politica e sociale, certamente non inevitabile, imposta dallo sviluppo economico e industriale; dall’altro, contribuisce a generare una coscienza ideologica nei ragazzi e nelle ragazze, un docile indottrinamento, sin dalla prima ora, fatto di una sorta familiarità con le idee di precarietà, di flessibilità e di resilienza, cioè di adattamento alle esigenze esterne.
Bisognerebbe chiedersi: che fine hanno fatto i sogni dei ragazzi e delle ragazze? Dove finisce l’istanza progettuale e desiderante che muove l’entusiasmo dei giovani nella costruzione della società futura? Ma, soprattutto, quale livello di complicità ci assumiamo noi, docenti e insegnanti, in questo processo di costruzione di una società marcatamente segnata dall’ideologia neoliberista di Stato?
[1] J. Markiewicz-Lagneau, Il ruolo dell’istruzione secondaria nell’URSS, in M. Barbagli, Scuola, potere e ideologia, il Mulino, Bologna 1972, pp. 82.
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a cura di Michele Lucivero
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