Per creator economy o passion economy o ancora ‘economia della monetizzazione individuale’ si intende quell’economia che ha a che fare con la creazione di contenuti (video, scritti, audio, etc.) da parte di persone con interessi e passioni diversi.
Importante, anzitutto, tracciare le differenze tra content creator e influencer.
Content creator è chi crea la propria opera e la condivide senza ricercare alcuna relazione commerciale con le aziende, relazione che si crea solo se l’azienda contatta il creator al fine di dar vita a una collaborazione professionale; influencer, invece, è chi utilizza le piattaforme digitali con il preciso scopo di dare vita a una relazione commerciale con le aziende, mettendo a disposizione della stessa la propria audience e la propria creatività.
La storia della creator economy si può dividere in tre fasi fondamentali.
Dapprima, con l’avvento di social come Facebook e Twitter, creatore di contenuti era ciascun iscritto. I soli benefici economici erano quelli delle società proprietarie delle piattaforme.
In seguito, attraverso canali come Instagram o Youtube, diversi influencer hanno iniziato a sfruttare la propria popolarità per fare pubblicità ad aziende interessate ad arrivare al loro pubblico.
Oggi, in un approccio tutto nuovo, dettato dalla volontà di essere indipendenti da aziende e piattaforme e basato sulla credibilità che riescono a trasmettere, i creator cercano sempre più di finanziarsi tramite il supporto del proprio pubblico e aumentare da sé il potere negoziale nei confronti della piattaforma che utilizzano.
In futuro sarà probabilmente sempre meno importante convincere un’azienda a fare da sponsor o massimizzare le visualizzazioni per generare profitti dalla propria attività creativa. I creator hanno compreso, cioè, che, invece che dipendere da altri (gli sponsor o le piattaforme), possono essere loro stessi il business che genera profitti.
Ciò che affascina della creator economy è proprio questo tipo di opportunità e l’impressione che trasmette di essere alla portata di tutti. Chi riesce a farsi notare sul web, mostrando le proprie qualità e competenze, spesso riceve attenzioni da televisioni, testate giornalistiche o case editrici.
Resta, tutta, che il rapporto con la piattaforma digitale è caratterizzato da un significativo squilibrio contrattuale: chi svolge tale attività in modo professionale è sempre in una condizione di dipendenza funzionale dalla piattaforma digitale.
Invero, la presenza digitale, la visualizzazione del contenuto e la relativa monetizzazione sono condizionate sia dall’algoritmo che dall’eventuale irrogazione di veri e propri provvedimenti sanzionatori da parte della piattaforma, come il c.d. «permaban», l’espulsione a vita del creatore a fronte di violazioni di codici di condotta stabiliti dalla piattaforma stessa, con conseguente perdita di storico di lavoro, video, materiali, contenuti e interazioni effettuate nel corso degli anni.
Si può dire che, ora più che mai, grazie all’amplissimo utilizzo registrato durante l’anno della pandemia, le piattaforme social si stiano trasformando in piattaforme per creator, mettendo a disposizione più strumenti.
Ma la creator economy non è il paradiso dei guadagni facili.
Ci sono, è vero, creator che grazie ai loro contenuti digitali sono diventati ricchi, ma la stragrande maggioranza vive una situazione molto diversa, con pochi o nessun guadagno da questa attività, solo 2-3 persone su 50 riescono a farne un lavoro vero e proprio.
In ambito europeo particolare attenzione si presta al settore dell’economia digitale a partire dal regolamento 2019/1150/UE in vigore dal 2020 che ha inteso assicurare una protezione uniforme degli utenti commerciali delle piattaforme elettroniche. Ulteriori sviluppi si prospettano a seguito dell’adozione di un insieme di proposte normative volte a disciplinare il mondo digitale, nell’ambito del quale si possono annoverare le proposte relative al Digital Service Act56 e al Digital Market Act57, nonché la recente proposta di direttiva dell’Unione europea relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro negli impieghi svolti mediante piattaforme digitali che recano una serie di misure volte a correggere le distorsioni e i disequilibri presenti nel mercato digitale, che potranno meglio definire il quadro delle tutele dei creatori operanti nel nostro Paese.
Atteso che, l’art. 34 cost. tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, è opportuno arricchire le prospettive finora seguite nell’approccio al mondo digitale, parlando di lavoro e non solo di servizi digitali.
Se è vero, infatti, che gli operatori della Rete sfruttano il potenziale di autonomia, creatività e produzione innovativa assicurato dalle piattaforme digitali, spesso i protagonisti di questa economia sono utenti-lavoratori che necessitano di minimi di stabilità e possibilità di programmazione, trasparenza e rispetto dei diritti fondamentali.
A fronte di un quadro normativo che, specialmente a livello europeo, è in continua evoluzione, in Italia manca ancora una soddisfacente ricostruzione del fenomeno della creazione di contenuti digitali, basata su dati amministrativi o statistici ufficiali.
Sarebbe utile, tra l’altro,
– la rielaborazione in un unico compendio normativo delle norme che regolano i rapporti del tipo considerato, raccogliendo anche principi e disposizioni elaborati nell’ambito dell’Unione europea, per costruire uno statuto di tutele per questi lavoratori del web che tenga in considerazione tanto l’elemento della dipendenza funzionale dalle piattaforme, quanto il significativo squilibrio proprio dei rapporti che vengo costituiti;
– individuare in modo univoco la definizione di ‘piattaforma digitale’ riferendosi al testo dell’art. 2 del c.d. Digital Market Act, per estendere al massimo l’ambito di applicazione delle tutele;
– estendere l’applicabilità dell’art. 27, comma 2 decies, d.l. n. 152 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 233 del 2021, anche ai rapporti costituiti tra creatori di contenuti e piattaforme digitali che diffondono i medesimi contenuti.