(Adnkronos) –
Circa 10 milioni nel mondo, "tra 6 e 10mila in Italia". Queste le persone che, ad oggi, convivono con una infezione da epatite Delta. "Ma stiamo parlando solo di stime, perché per questa patologia il sommerso è ancora molto elevato e non sempre vengono fatti test adeguati. Molti di questi soggetti non sono gestiti nei centri patologici di riferimento e non sono tutti in trattamento antivirale". Lo ha detto Pietro Lampertico, professore di Gastroenterologia all'università degli Studi di Milano e direttore dell'Unità di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Milano, nell'ambito del Congresso Aisf – Associazione italiana per lo studio del fegato, che a Roma ieri e oggi ha richiamato esperti per fare il punto sulle epatiti virali. "L'epatite cronica Delta – spiega l'esperto all'Adnkronos Salute – è la forma più aggressiva che conosciamo di tutte le forme di epatite croniche virali, più pericolosa dell'epatite B e della C". Per far emergere il sommerso, prosegue Lampertico, "occorre effettuare screening. Quindi la priorità assoluta è che i colleghi epatologi, infettivologi e i medici si ricordino di screenare qualunque soggetto HbsAg positivo, qualunque, con un test molto semplice per gli anticorpi anti epatite Delta. Nel caso in cui il paziente fosse positivo all'anticorpo di epatite Delta, poi viene dosato il genoma quantitativo Hdv-Rna e, se positivo, si ha una diagnosi di epatite cronica Delta e il paziente verrà inviato al centro di riferimento per il trattamento".
L'epatite Delta è stata scoperta "alla fine degli anni '70 dal professor Mario Rizzetto di Torino", ricorda Lampertico. "Per molti anni – evidenzia – l'unica terapia per l'epatite Delta è stata la somministrazione di interferone". Tuttavia questa strategia può essere utilizzata solo in alcuni pazienti. "Dal 2020 in Europa abbiamo a disposizione bulevertide, un farmaco che inibisce l'entrata dell'epatite Delta nelle cellule epatiche. Si tratta di un antivirale rimborsato per tutti i pazienti con epatite cronica Delta, indipendentemente dalla gravità della malattia", rimarca lo specialista. La disponibilità di un nuovo farmaco per l'epatite Delta, "per la prima volta in oltre 45 anni – precisa Lampertico – ha rivoluzionato il rapporto col paziente e sta rivoluzionando anche la qualità di vita del paziente. Molti pazienti con epatite Delta non vedono l'ora di iniziare il trattamento con questo farmaco e la maggior parte di loro ha un miglioramento della qualità di vita durante la terapia. Non solo, ma anche un miglioramento, naturalmente, di tutti quelli che sono i marcatori virologici e clinici legati alla malattia del fegato", conclude l'esperto. —salutewebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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