Tra le letture che maggiormente segnarono la mia età giovanile, di certo l’etica protestante e lo spirito del Capitalismo di Max Weber è quella che occupò un posto di rilievo. Da allora e per molto tempo dopo: la mistica e la libertà del lavoro, il rapporto con la divinità divenuta prassi, lo sforzo quotidiano fattosi preghiera, hanno occupato la mia visione del primo motore dell’economia. L’accenno che già Weber faceva al capitalismo dell’età antica mosso dall’auri sacra fames (esecranda fame di oro, ndr), aveva per me una motivazione brutale, lontana sia dall’ascesi laica delle popolazioni riformate che dalla mia concezione del lavoro e dell’intrapresa.
Poi, quando le occasioni della vita mi hanno costretto a diventare adulto, l’eco della marcetta eroica, che animava in sottofondo lo scritto di Weber, si è spento. La logica del profitto, il disprezzo dell’uomo oggetto del lavoro e prodotto dell’economia, hanno sostituito la convinzione dei meriti acquisiti di fronte alla comunità e all’essenza divina. La Grazia e le sue verifiche sono scadute in capitale e salario: il capitale in estorsione del lavoro, il salario in obbedienza al sistema. Per una moltitudine di stipendiati la misura della benevolenza celeste corrisponde ormai all’aggressività sociale bella e buona.
Dati l’obbligo di fedeltà al datore di lavoro e l’obbedienza alle mansioni, la possibilità di avere un sovvertimento all’interno del sistema salariale è pari a zero. Ogni soggetto economico vanta sfacciatamente meriti sempre maggiori per aumentare il proprio guadagno: l’imprenditore di fronte alla collettività, il lavoratore nei confronti del padrone. Purtroppo, nelle etimologie di salario e stipendio, si nasconde la prova di quanto questi siano una mercede per un servizio bellicoso: la paga del soldato, la causa violenta e definitiva della disuguaglianza di classe. Si nasconde la vera natura del lavoro al servizio del profitto, che trasforma in denaro l’abuso, la prevaricazione, la menzogna.
Occupando tutti gli spazi economici il Capitale ha rubato l’esistente. Ha costruito un mondo del lavoro dipendente che tiranneggia tutte le altre attività umane: ha preteso il dominio del prezzo su ogni bene, una paga per ogni lavoratore, ha fondato una lotta di classe che si realizza per esclusione, prima ancora che per manifestazione violenta. Giacché il lavoro è in fin dei conti solo un pretesto, al contrario la questione principale è la divisione in classe che si compie attraverso di esso.
L’autocollocazione lavorativa è la proposta di ogni uomo per realizzare il suo programma biologico e spirituale di fronte al consesso economico e sociale. Da questo momento in poi sorge contro il lavoratore ogni genere di forze espulsive dai processi di produzione, distribuzione e consumo, un darvinismo del lavoro che troppo semplicisticamente passa per essere regolato dal mercato. Invece, oltre alle inclusioni finte dello sfruttamento, ci sono le inclusioni vere realizzate per familismo, clientelismo, e attraverso i trucchi delle altre filiazioni; a queste corrispondono le esclusioni compiute con gli stessi mezzi. La disoccupazione, l’emarginazione, l’estinzione, sono i risultati di una selezione eseguita con le armi implicite dell’esclusione e con quelle esplicite della violenza, della corruzione e del mobbing.
A mantenere la stabilità di una società così concepita concorrono di certo l’avidità, l’invidia, l’ignoranza, ma soprattutto gli apparati ideologici e repressivi di Stato. Il trucco è completato. L’intera esistenza umana è costretta nelle spire di un’ossessione: essere un soggetto economico di successo, diventare una persona che esprime ogni aspetto della sua umanità nei meccanismi di produzione e consumo. E i meriti? Quale posto hanno i meriti nei confronti della comunità, quale gli sforzi consacrati alla divinità? Nessuno. Il denaro saltato fuori da un trucco, da una mistificazione, è la misura dell’oppressione dei migliori aneliti umani, la prova del sacrificio dello spirito sui bisogni materiali.
L’opposizione feroce che l’individualismo mediterraneo sta facendo al cosiddetto “reddito di cittadinanza“, oltre alle motivazioni del potere politico, ha come sua ragione principale la formidabile attenuazione della disuguaglianza di classe causata dall’accesso sicuro ai beni di prima necessità. Persino la Chiesa, tramite il suo improbabile “Francesco“, giudica la misura del reddito non idonea a realizzare la dignità umana, poiché sottrarre tante anime alla sua carità redistributiva è per essa un danno, ma non si pone il dubbio se la carità, al contrario, generi dignità in chi la riceve.
In fin dei conti la rivolta contro l’oppressione della Chiesa di Roma, la Riforma, fu fatta per guadagnare spazio: per conquistare la libertà economica che, sciolta dai legami etici e politici con il vecchio ordine, potesse fruttare prosperità ai rivoltosi. Lo spazio, la nuova terra, dove le attività dell’uomo libere dalle soggezioni tradizionali subirono nuovo impulso, divenne il nuovo dio, come per gli eredi del Mayflower che considerarono la frontiera l’origine della sacramentale libertà americana. Ma essi non sovvertirono il sistema, lo spostarono solo più in là, dove la condizione di essere complici nel furto fosse più conveniente, dove un ricco stipendio fosse la misura dell’alleanza con il vincitore.
Ed ecco folle di salariati dalle funzioni aberranti, orgogliosi di essersela cavata, che considerano valore la distanza con chi economicamente sta peggio, che hanno collaborato a produrre veleno, ad uccidere il pianeta e la residua umanità, che hanno contribuito al dolore di questo mondo. “...Ecco, vili, mediocri, servi, feroci, le vostre povere madri! Che non hanno vergogna a sapervi – nel vostro odio – addirittura superbi, se non è questa che una valle di lacrime. E’ così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli nelle opposte passioni, o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di esser uomini.” (dalla Ballata delle madri. Pier Paolo Pasolini)