L’austerità? Scusate, ci siamo sbagliati. Lagarde (BCE) ammette l’inutilità delle manovre “lacrime e sangue”

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Christine Lagarde (BCE)
Christine Lagarde (BCE)

di Marco Palombi sul Fatto Quotidiano

Il diavolo, si sa, si infila nei dettagli. Ed è in un dettaglio del discorso che Christine Lagarde ha tenuto a Francoforte mercoledì scorso che sta nascosto il diavolo dell’austerità, un nome che nasconde la pessima conduzione politica dell’Eurozona e le milioni di tragedie personali rubricate sotto la voce “crisi economica”. Per capire serve tornare al sottovalutato discorso della governatrice della Bce, che nasconde un conflitto che continua a emergere tra i Paesi dell’euro e parte da una domanda: come mai sono anni che non c’è inflazione?

Tenerla “vicina ma sotto al 2%” è il principale compito assegnato alla Banca centrale e dunque la domanda non è oziosa e coinvolge le fondamenta delle regole Ue. La risposta di Lagarde, tra le altre, è che “mentre la politica monetaria ha sostenuto l’inflazione”, “è stata controbilanciata dai venti contrari della domanda” e cioè da una politica fiscale (quanto deficit, per capirci) troppo rigida, che ha peggiorato le cose. Si sono sbagliati, che peccato.

Come è potuto succedere? In sostanza la Ue avrebbe misurato male una cosa chiamata “Pil potenziale”. Ci concentreremo su una delle possibili spiegazioni citate da Lagarde: “Le revisioni alla produzione potenziale hanno scambiato i cambiamenti ciclici per tendenze strutturali”, cosa che è dimostrata dal fatto che “dal 2011, gli studi che presumono che l’output gap sia stato molto più ampio hanno, in generale, sovra-performato quelli che utilizzano stime tradizionali”. Insomma, hanno azzeccato di più le previsioni. Cos’è allora questo output gap? All’ingrosso la distanza stimata tra il Pil effettivo e il Pil potenziale: in questo differenziale, un diabolico dettaglio, c’è la storia dell’austerità europea.

Dando per scontato che il Prodotto interno lordo è la somma di una serie di cose misurabili, quello “potenziale” è la stima del Pil raggiungibile in condizioni di piena occupazione senza creare tensioni sui prezzi. Esisterebbe, in soldoni, una cosa detta “disoccupazione di equilibrio”: se il tasso dei senza lavoro si abbassa sotto quella cifra l’economia si “surriscalda” facendo salire troppo l’inflazione, i governi devono dunque “raffreddarla” con una bella stretta fiscale. Il Pil potenziale serve a calcolare il famoso “saldo di bilancio in termini strutturali”, anche detto “al netto del ciclo economico”: insomma quella estenuante guerra di zero virgola con l’Europa a cui assistiamo ogni anno prima del varo della legge di Bilancio.

Attenzione: il concetto stesso di Pil potenziale è stato criticato scientificamente fin dagli anni Sessanta (Joan Robinson, Piero Sraffa, i post-keynesiani in generale), ma è rimasto uno dei cardini del modello economico mainstream, quello liberista o neo-liberista per quelli a cui piacciono le novità. L’ammissione di Lagarde, insomma, non è una novità ed è anche meno di quanto già si sa, ma è comunque una presa di posizione “rivoluzionaria” nella palude Ue, dove l’output gap viene peraltro calcolato in modo particolarmente penalizzante per i Paesi in crisi: l’allora ministro Pier Carlo Padoan nel 2014 se ne lamentò ufficialmente con Bruxelles, dimostrando che variando di pochissimo le stime sottostanti al calcolo, l’Italia sarebbe stata già da considerarsi in pareggio di bilancio strutturale dal 2012; ottima iniziativa il cui effetto fu nullo.

L’anno scorso Adam Tooze, storico della Columbia University, ha tentato di spiegarne così l’effetto perverso “con parole comprensibili ai profani”: “Si tratta approssimativamente di una media mobile delle prestazioni passate. Ciò significa che l’output potenziale deriva dalle sue stesse tendenze storiche, continuamente aggiornate con le ultime informazioni disponibili”. Insomma, “le stime del potenziale non sono, di fatto, indipendenti dai risultati della produzione effettiva. Se combinate con rigide regole fiscali, le stime retrospettive dell’output potenziale possono avere effetti veramente perversi”.

Tradotto: una crisi come quella del 2008-2009 deprime la crescita dunque, per i tecnici della Commissione, anche il Pil potenziale; a quel punto Bruxelles chiede più austerità per non surriscaldare l’economia; l’effetto è che la crisi peggiora e anche il Pil potenziale e così via. Basti dire che nel 2014 la Commissione stimò la disoccupazione di equilibrio in Spagna quasi al 26% e in Irlanda al 15%: in entrambi i Paesi quel tasso a fine anno fu inferiore e in entrambi i Paesi l’inflazione scese invece di aumentare (in Spagna, peraltro, sotto zero). Non parliamo nemmeno del disastro combinato in Grecia.

Veniamo all’Italia. Ancora Tooze: “Nel caso italiano l’effetto è stato drammatico. Nel 2018, a dieci anni dall’inizio della crisi, con l’alta disoccupazione e la bassa crescita divenute norma, le stime della produzione potenziale in Italia sono state riviste al ribasso di un valore tra il 15 e il 20% – di conseguenza anche una modesta crescita economica è stata sufficiente a spingere l’Italia al di sopra del suo limite di produzione potenziale e far registrare un output gap positivo. Con la disoccupazione ancora vicina all’11%, la sua economia è stata dichiarata surriscaldata”. Fino a quest’anno, in sostanza, secondo la Ue (ma anche secondo il Fondo monetario) l’Italia avrebbe avuto bisogno della stessa politica di bilancio di Germania e Stati Uniti. Una tale insensatezza ha spinto persino un pezzo dell’establishment a provare a smontare la macchina infernale: è il caso della campagna social Against nonsense output gaps (Contro il nonsenso degli output gap) lanciata da Robin Brooks, capo economista dell’Istituto di Finanza Internazionale, vale a dire una lobby del settore bancario. Perché non ha avuto successo? Semplice: le complesse formule matematiche di questi calcoli devono comunque “ottenere l’approvazione degli stati membri più conservatori. Le stime dell’output gap, in breve, sono politiche perseguite tramite i mezzi tecnici dell’economia” (ancora Tooze).

Ora c’è da chiedersi se quella che, tecnicamente, chiameremmo la scoperta dell’acqua calda di Lagarde (fino a ieri capo del Fmi) possa significare qualcosa per il futuro dell’Eurozona: “Nel contesto attuale – ha detto la governatrice della Bce – entrambe le politiche (monetaria e fiscale, ndr) devono rimanere espansive per tutto il tempo necessario a raggiungere i rispettivi obiettivi”. Lagarde dice insomma che la Bce deve continuare a fare il Quantitative easing o simili e che il Patto di Stabilità, oggi sospeso, non deve tornare in vigore prima di molto tempo e che quando lo farà dovrà essere molto diverso. È la posizione francese (e italiana e in generale dei “mediterranei”), ma non è quella tedesca: questo è il confronto in corso nell’Eurozona, questo ne deciderà il futuro.

COS’È L’OUTPUT GAP

Quel numerino che decide il deficit “strutturale”

• Di cosa parliamo

L’output gap è il differenziale tra il Pil effettivo e quello “potenziale”, vale a dire – specie nel contesto europeo – la stima del Prodotto interno lordo raggiungibile

da un determinato Paese in condizioni di piena occupazione senza creare tensioni inflazionistiche

• La disoccupazione di equilibrio

In sostanza, dal calcolo del Pil potenziale discende l’idea che esista un numero di senza lavoro sotto il quale

la dinamica dei prezzi si surriscalda

• Il pareggio di bilancio al netto del ciclo

Il Pil potenziale, l’output gap e la disoccupazione di equilibrio vengono usati per calcolare che tipo di budget pubblico “strutturale” devono varare i Paesi europei per non far surriscaldare l’economia. Un metodo contestato da decenni e che ora è finito nel mirino anche della Bce