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Proviamo a confrontare due grandi inchieste della magistratura sui lavori pubblici che hanno terremotato mezza Italia ma sono finite in modo opposto. La prima ha scoperchiato il più grosso scandalo della Repubblica italiana dal 1947 ad oggi, portando alla sbarra politici di caratura nazionale, alti burocrati, professionisti di grido. La seconda ne ha indagati altrettanti, anche se ad un livello più basso, ma non è arrivata al rinvio a giudizio, è finita archiviata. Parliamo dell’inchiesta MoSE portata a conclusione dalla procura di Venezia e dell’inchiesta “Grande Tagliamento” avviata senza successo da quella di Gorizia.
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Della prima è noto quasi tutto: il caso esplode il 4 giugno 2014 con 35 arresti e un centinaio di indagati per corruzione, tangenti, false fatturazioni, costituzione di fondi neri con cui gli indagati avevano complessivamente sottratto un miliardo di euro agli stanziamenti per la salvaguardia di Venezia. A fine 2014 la magistratura veneziana aveva già ottenuto qualche decina di patteggiamenti, confiscato beni e avviato processi con rito ordinario.
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L’inchiesta “Grande Tagliamento” è meno conosciuta: il botto avviene nel novembre 2018 con 120 imprese passate al setaccio dalla Guardia di Finanza in 14 regioni d’Italia, 220 persone indagate, poi ridotte a 195. Imputazione per tutti: turbativa d’asta e appropriazione indebita in concorso. Avevano manipolato circa 150 gare d’appalto per spartirsi i lavori senza entrare in competizione. Sotto indagine sono finite anche le stazioni appaltanti: Regione Friuli, Porto di Trieste, Autovie venete, Autostrade per l’Italia, Veneto Strade, Cav, Save e le altre società di gestione degli aeroporti veneti, per limitarci ai nomi più in vista del Nordest.
Questi “appalti truccati” valevano complessivamente oltre un miliardo di euro in lavori di costruzione o manutenzione di strade, autostrade, ponti, viadotti, gallerie, sottopassi, acquedotti, gasdotti, opere marittime, piste aeroportuali. Ma il 6 febbraio scorso, dopo sette anni, il Gip di Gorizia ha disposto l’archiviazione per tutti gli indagati. Su richiesta, da notare, della stessa procura che aveva avviato le indagini. Motivazione: i reati principali, turbativa d’asta e appropriazione indebita, erano andati in prescrizione (6 anni) e gli altri non erano sostenuti da prove sufficienti.
La procura di Gorizia aveva avviato l’inchiesta basandosi su intercettazioni telefoniche da cui risultava che le imprese pilotavano l’assegnazione degli appalti concordando tra di loro l’entità dei ribassi da presentare in gara. C’era il fumus del reato ma 6 anni non sono bastati per documentarlo. C’è da chiedersi allora se era davvero un reato o se i contatti erano normali rapporti tra imprenditori, inevitabili nel libero mercato, come vanno dicendo ancora oggi gli interessati.
Anche la procura di Venezia nell’inchiesta MoSE era partita da intercettazioni telefoniche, ma ha trovato riscontri nella contabilità parallela di alcune aziende, nei passaggi di denaro e soprattutto nella decisione di collaborare di alcuni indagati. Riscontri che hanno retto in tribunale. Aveva un’arma in più: la custodia cautelare in carcere, usata senza esitazione, nonostante la vastità dello scenario che si profilava.
L’inchiesta “Grande Tagliamento” non presentava uno scenario meno vasto. Anzi, per numero di indagati e diffusione degli appalti si annunciava come “il MoSE delle imprese minori”. Invece il teorema è rimasto senza dimostrazione. Perché un finale così diverso?
Non entriamo nei meccanismi delle due inchieste e meno ancora nelle procedure seguite. Il punto di vista che adottiamo è quello degli analfabeti del diritto, i cittadini che pagano le tasse. I quali una cosa hanno capito bene: in entrambi i casi erano in gioco soldi pubblici sottratti all’erario, cioè alle tasche di tutti. Da una parte sono state trovate le prove, dall’altra l’archiviazione per prescrizione dei reati non elimina il sospetto.
Cosa bisogna pensare? Lo chiediamo all’avvocato Maurizio Paniz difensore di molti imprenditori nell’inchiesta “Grande Tagliamento. «La magistratura fa bene a indagare, le indagini sono tutte legittime anche con elementi indiziari», risponde Paniz. «A Gorizia c’erano apparenti indizi, il problema è la chiusura dell’inchiesta dopo tanti anni. Nel frattempo un uomo onesto come l’ingegner Enrico Razzini, direttore generale di Autovie, ha avuto un infarto ed è morto. Era una persona emotiva, non ha resistito. I tempi delle inchieste sono gestiti dai pm ma nessuno controlla questi tempi, neanche i capi degli uffici perché c’è l’autonomia del magistrato. Non si può aspettare così tanto».
Paniz ribalta il problema sull’insopportabile lentezza della giustizia, che tutti denunciano. Con la differenza che a farlo stavolta è uno che per 11 anni è stato seduto in Parlamento, in commissione giustizia, ovvero dalla parte della barricata dove qualcosa si poteva fare per cambiare l’andamento.
Sull’inchiesta MoSE l’avvocato Paniz è molto più esplicito: «L’esito in questi processi dipende solo dal comportamento degli imputati. Senza la deposizione dell’ingegner Mazzacurati e senza i patteggiamenti, che non avevano ragione di essere chiesti, la vicenda Mose sarebbe finita in nulla».
E le intercettazioni, i movimenti di denaro, gli elementi raccolti dalla Guardia di Finanza? Non avrebbero retto in aula, è sicuro Paniz.
Ne è convinto anche Piergiorgio Baita, l’altro grande pentito del MoSE: «Su di noi c’era la pressione dell’opinione pubblica per la quale il sospetto equivale ad una prova. Non altrettanto vale a livello giuridico. Sull’inchiesta Grande Tagliamento non è stata presa nessuna misura cautelare, questa è la grande differenza, se non vogliamo essere ipocriti. Difficile portare a termine un grande processo e confermare in aula tesi con scarsi riscontri».
Resta la domanda sugli appalti pubblici: ci dobbiamo tenere il sospetto?