di Piergiovanni Alleva sul Fatto Quotidiano
È urgente e necessario mettere a punto una soluzione vera e permanente per quando finirà il blocco legale dei licenziamenti che il decreto “Agosto” ha prorogato, non senza sfrangiature, fino al mese di dicembre. I vertici di Confindustria hanno già cominciato a reclamare la libertà di licenziamento e la cessazione dei sussidi in favore di poveri e lavoratori in difficoltà.
La soluzione più efficace e semplice per governare gli esuberi, evitando, però, i licenziamenti di massa, sarebbe la riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giornate, opinione confermata da autorevoli prese di posizione di politici europei. Ad esempio, il capo dei sindacati metalmeccanici tedeschi Jorg Hoffman, ma anche la presidente del Partito socialdemocratico austriaco Pamela Rendi-Wagner hanno indicato la settimana di quattro giorni (“Vier-Tage-Woche”) come formula privilegiata a cui ricondurre, intanto, l’istituto della “Kurzarbeit”, l’ammortizzatore sociale simile ai nostri contratti di solidarietà, ma da assumere, poi, come regime ordinario dell’orario lavorativo.
Proprio questo è il valore strategico della proposta di riforma dell’orario: nell’immediato, in presenza di esuberi di personale conseguenti al lockdown, li elimina, riproporzionando le ore lavorative ai minori volumi produttivi, ma una volta recuperato il livello di produzione “ante-pandemia” espande, invece, l’occupazione rendendo necessaria l’assunzione di nuovi lavoratori per ricostruire il necessario monte-ore lavorate. Nel nostro ordinamento, d’altro canto, è già stata normata una prima volta la “trasformazione” dei contratti di solidarietà “difensivi” in contratti di solidarietà “espansivi”. Le questioni da affrontare e risolvere sono, però, di due ordini: economico e politico-giuridico.
Il problema economico nasce dalla necessità di compensare la riduzione di orario perché essa avvenga “a parità di salario”, il che può apparire molto o troppo costoso, ma solo perché non si riflette sull’alternativa inevitabile nel caso che, invece che alla riduzione di orario, si ricorra ai licenziamenti come vorrebbe Confindustria.
Gli esuberi sono stimati in 1 milione di lavoratori e licenziarli significa non soltanto provocare un trauma sociale insopportabile, ma anche “spendere” immediatamente 1 milione di indennità di disoccupazione (Naspi), con durata fino a 24 mesi ed importo di circa mille euro mensili. Insomma, dare il via ai licenziamenti significa spendere 20 miliardi, col risultato di trovarsi sull’orlo della guerra civile. Con quei 20 miliardi, invece, si potrebbe compensare, perché avvenga a parità di salario, la riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giornate per 5 milioni di lavoratori, l’esubero sarebbe eliminato senza condannare nessuno alla disoccupazione.
Ma c’è di più: con il Fondo “Sure” sono stati stanziati e assegnati all’Italia circa 28 miliardi di euro di prestiti destinati proprio alle riduzioni di orario e, dunque, ben si può dire che il rifiuto dei licenziamenti grazie alla riduzione d’orario è, effettivamente, una scelta europea.
Dal punto di vista normativo, poi, va segnalato che con l’articolo 14 del decreto Agosto è stata implicitamente accolta nel nostro ordinamento la regola, o canone, del licenziamento come ultima ratio, nel senso che è vietato licenziare senza prima aver esaurito tutta la Cassa integrazione richiedibile.
Ed allora sarebbe sufficiente, in sede di conversione del decreto, richiedere il preventivo esperimento anche della riduzione dell’orario lavorativo settimanale a 4 giornate, con contratti di solidarietà difensiva, che potrebbero diventare una componente di un più complessivo contratto aziendale “di ripartenza”, nel quale potrebbero trovare posto altri importanti capitoli quali le salvaguardie anti-contagio, la regolamentazione dello smart working, i piani di riqualificazione professionale, gli incentivi per la ripresa.
Alla riduzione della settimana lavorativa va assegnata fin d’ora una valenza non più emergenziale ma di riforma definitiva del mercato del lavoro in tutti i comparti produttivi perché possa poi passare da una funzione difensiva ad una espansiva dell’occupazione.
Per questo andrà modificata la legge del 2003 in materia di orario di lavoro, così da ridefinire l’ “orario normale” in 4 giornate e 32 ore di lavoro settimanali, e, per altro verso, limitare la possibilità o la convenienza del ricorso al lavoro straordinario. Dovranno essere previsti, per converso, opportuni incentivi economico-normativi per realizzare “a parità di salario” la riduzione oraria, e di essi occorre cominciare a discutere immediatamente, anche nel quadro di una riforma fiscale che privilegi i redditi da lavoro in modo da passare senza soluzione di continuità dalla fase difensiva a quella espansiva.