Le parole della rivoluzione proletaria: sovranismo

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Dicono: sovranismo… Come se volessero tacciare di provincialismo. Se ci si oppone con una certa risolutezza, allora quel sovranismo sta per nazionalismo, dunque, fascismo. Chi sono? Sono i padroni della politica, quelli che inventano le parole, che te le scaricano addosso; quelli che le tradiscono. Per i padroni le parole sono leggere: le usano con facilità, ce le fanno danzare sopra le teste per sedurci, ce le schioccano in faccia per ammonirci. Chissà che pensano, i padroni, quando dicono: dignità! Sacrificio! Onestà! Nello stesso momento in cui quelle parole invece le hanno dette gli altri, hanno perso immediatamente di significato, sono diventate ridicole, sono diventate menzogne. 


I padroni e i loro servi, a cui abbiamo detto basta (e abbiamo vinto), ci beffeggiano con parole nuove: ci dicono che la nostra rivoluzione era in fin dei conti solo una malattia infantile della politica, che presto dovrà crescere, dovrà guarire.

Dall’abitudine a militare nei partiti di sinistra, riuscii ad intercettare nei primi anni ’90 una speciale mutazione: l’internazionalismo proletario stava sparendo. Tutto ciò che restava a farci valicare con un brivido la frontiera, era “l’internazionale futura umanità”: una canzone, unica a rappresentare il massimo obiettivo della lotta, dell’impegno politico di tante generazioni. Ai padroni, dopo averci spremuto nei lager nazionali, cominciavano a stare stretti i vincoli che venivano dalle nostre democrazie, dalle costituzioni (in special modo quelle mediterranee) e, come sempre, dalle leggi. Una parola nuova, globalizzazione, era diventata di moda tra la stampa e i pensatori di regime.

Macché globalizzazione! I padroni avevano solo internazionalizzato l’abuso: viaggiavano merci da un capo all’altro del pianeta, viaggiavano i soldi, ma le persone erano ancora incatenate ai loro luoghi di produzione, così allora si diceva. Ancora per poco. E allora nei partiti dei giusti e degli onesti si cominciò a pensare alla dimensione nazionale come l’unica adatta a proteggere le conquiste operaie, l’unica dentro cui era possibile una politica efficace contro il predominio del capitale. E l’internazionalismo sparì. La dimensione cosmopolita fu interamente nelle mani dei padroni. Difatti, come spesso accade (e com’era ad esempio già accaduto per l’Unità d’Italia), i migliori aneliti del patriottismo, questa volta europeo, furono utilizzati dagli interessi dominanti a loro piacimento. A Schengen seguì Maastricht, e i lavoratori europeisti si trovarono ad aver lavorato per il re di Prussia.

I concetti che si elaboravano nei partiti dell’estrema sinistra erano troppo complessi per pretendere anche un consenso popolare; e poi erano pieni zeppi di contraddizioni. Ma alla fine, proprio a sinistra, si completò la mutazione. Quei partiti cominciarono a tifare per l’Europa del padrone. E quell’Europa, come pure il suo mondo, nel progetto doveva diventare un enorme orto del capitale dove merci e denaro dovevano viaggiare indisturbati, dove non ci si poteva permettere angoli a giardino con leggi che difendevano il lavoro e i salariati. L’idea guastatrice fu quella di far viaggiare anche le persone, per distruggere con i loro bisogni crumiri le precedenti conquiste “proletarie”.

Se adesso, con un linguaggio semplice, si prende a prestito una sacrosanta idea operaista per difendere le leggi e i diritti violati, ecco che ti chiamano sovranista, ecco che il padrone e i suoi accoliti inventano una parola da incriminare, che faccia il paio con quella di populismo. Intendono, quei servi, accusare i “sovranisti” di essere retrivi, reazionari, strumenti fuori moda della più becera conservazione. E invece, miei cari stipendiati ospiti di “otto e mezzo”: noi vi terremo serrati dentro i confini nazionali, ché per ora pare l’unico posto adatto per realizzare la democrazia. E il fratello africano non ce ne voglia, poiché non abbiamo tempo di farci guidare da una classe politica di second’ordine come quella di Bruxelles, adesso è il tempo di portare a termine la rivoluzione appena iniziata in quest’angolo della tribù occidentale.