Il film d’apertura della mostra del cinema di Venezia è sempre un rischio. Per chi lo chiede (l’organizzazione) e per chi accetta di offrirlo (la produzione, la regia). L’esposizione è massima e, a mio avviso, sbaglia la direzione, sotto altri versi eccellente, a proporlo in concorso. L’ideale sarebbe offrire al pubblico e alla critica un’opera di autore di prestigio ma fuori concorso.
Quest’anno, due giorni fa, è toccato correre questo rischio ad un autore peraltro sulla cresta dell’onda, giapponese, di prestigio fresco perché vincitore, con un ottimo film (Affari di famiglia,il titolo italiano) alla parallela grande competizione di Cannes nel 2018: Hirokazu Kore-eda. Ha aperto la Mostra veneziana, Kore-eda, un nome che al grande pubblico non dice ancora nulla (ma questo è un altro grave problema di cui il cinema di sala, se vuole sopravvivere, dovrà farsi carico per risolverlo), con un film ad ambientazione francese, dal titolo emblematico, “Le verità” (al plurale). Impianto francese, con due grandi e “storiche” interpreti francesi, Catherine Deneuve e Juliette Binoche, che più francesi non si può. Direttore d’orchestra (faccio per dire) un (bravo) regista giapponese. Qualcosa non quadra.
Il tema? Squisitamente occidentale, a fortiori francese: il narcisismo della ex grande attrice, di successo, sulla via del tramonto, autrice, nel caso, di un libro autobiografico sulla sua vita, i suoi cari, sua figlia (Juliette Binoche), e la sua ombra, Sarah, che nel film è spesso nominata ma non si vede mai. E’ un fantasma, aleggia.
Juliette Binoche figlia incompresa e trascurata di una pur sempre brava Catherine Deneuve (55 anni contro 75, ci siamo) vive in America, a New York, dove è andata, si dice fra le righe e si presume, per distanziarsi dalla madre fagocitante e onnivora. Arriva però con una figlioletta di nove anni (che ha l’aria di assomigliare alla nonna) e con un marito attore fallito (nella sua storia ma anche nel ruolo che qui interpreta) e arriva per festeggiare la madre, di cui è comunque vittima e quindi legata alla conseguente dipendenza, che manda in libreria il suo libro e insieme recita in un film (discutibile) in cui fa la parte di una figlia che invecchia mentre la madre resta giovane perché per sfuggire ad un male incurabile e sopravvivere si fa spedire nello spazio.
La coincidenza quasi imbarazzante fra vita virtuale (del film nel film) e vita reale è il nocciolo del racconto. La vita in diretta non scioglie le iniziali, epidermiche ma anche profonde estraneità morali. Kore-eda si destreggia in modo formalmente impeccabile, le attrici (soprattutto la Deneuve) sono brave ovviamente, ma il risultato epico-psicologico è modesto. Lo spettatore non è coinvolto. Lo pseudo dramma, la pseudo commedia, non possono che lasciarlo indifferente. Qualche sorriso qua e là e la constatazione che per Kore-eda gli uomini sono tutti (il marito di Juliette, i mariti e compagni di Catherine) idioti o, in ogni caso, succubi delle energiche, quanto inquiete, signore. Può essere una verità anche questa (una delle molte verità evocate dal titolo?) o solo una rispettabile opinione dell’autore nipponico. O forse, più verosimilmente, è una solida ipotesi sulla quale tutti noi (maschietti, intendo) val la pena che si rifletta.