“Noi siamo quello che mangiamo” diceva il filosofo tedesco Feuerbach, riferendosi al fatto che quello che scegliamo come cibo dice molto di noi e del nostro modo di vivere oltre, chiaramente, a nutrirci in un certo modo e a diventare parte di quello che diventiamo. Un’affermazione che aveva già un suo senso nell’Ottocento ma che, con l’evolvere della ricerca biomedica e nutrizionale, è diventata persino più vera considerando le implicazioni psicofisiche e sociali dei nostri stati fisici, umorali e di salute.
In un mondo moderno in cui il food è diventato protagonista assoluto di diete benefiche, fotografie da postare sui social, programmi TV e aperitivi tra amici e colleghi, i prodotti tipici regionali incarnano alla perfezione questa massima. Esempio nè è la famosissima lenticchia di Santo Stefano di Sessanio, presidio Slow Food e tra i prodotti agroalimentari tradizionali abruzzesi, documentata sin dalla fondazione dell’antico borgo medievale (X secolo).
Una leguminosa di una varietà molto pregiata che, qualche anno fa, ha anche occupato diverse pagine di cronaca locale e nazionale perché a rischio estinzione.
Ieri e oggi – Varcare i confini di Santo Stefano di Sessanio significa darsi l’opportunità di vivere un’esperienza diversa dal solito, immergendosi in un borgo che è rimasto come fermo nel tempo con la pietra calcarea bianca che disegna bifore, finestre in pietra, case quattrocentesche, archi e loggiati. Fa parte dei borghi più belli d’Italia ed è immerso nei panorami del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga che gli fanno da cornice.
Le origini della coltivazione della lenticchia tipica locale si perdono nel tempo. Secondo gli storici, gli altipiani aquilani erano già dedicati a questa leguminosa prima della fondazione del borgo, quando il territorio era controllato dall’abbazia di San Vincenzo al Volturno e questa lenticchia, fra i documenti monastici dell’epoca, veniva definita la “carne dei poveri” per l’alto contenuto proteico che riusciva a sostentare le famiglie meno abbienti. Ripercorrendo la cronistoria di Santo Stefano abbiamo visto come, successivamente, la tradizione della cittadina sia continuata con la Baronia di Carapelle e la Signoria dei Medici, periodo in cui si è vissuto il massimo splendore. Con l’Unità d’Italia e la privatizzazione del Tavoliere delle Puglie molti residenti furono costretti ad emigrare ma, all’epoca, questa lenticchia era già considerata prodotto tipico del circondario.
A causa di questo spopolamento continuo del borgo, però, si è dovuto aspettare il 2008 per la nascita del Consorzio di Tutela della lenticchia di Santo Stefano di Sessanio: dagli anni ’90, infatti, un progetto di albergo diffuso ha dato nuova linfa vitale al turismo, aiutato dalle iniziative dei giovani della pro loco e delle amministrazioni. E, così, questo legume è diventato non solo simbolo di Santo Stefano di Sessanio, ma anche cardine della sua economia.
Nel 2017, la crisi: la produzione è calata del 50% a causa dei cambiamenti climatici e dei cinghiali selvatici. Da allora è sotto la lente di Eliodoro D’Orazio, presidente di Slow Food Abruzzo-Molise, sceso in campo a sostegno dei produttori per salvare uno dei presidi più datati, dalle caratteristiche uniche.
Una variante pregiata – La lenticchia di Santo Stefano di Sessanio incarna una qualità molto rara e antica, coltivata da sempre solo in alta montagna (tra i 1200 e i 1450 metri) e raccolta esclusivamente a mano. Questo per preservarne le proprietà oltre che per evitare ingenti perdite, visto che cresce su territori anche parecchio impervi. Essendo un biotipo autoctono, che si è adattato agli inverni lunghi e rigidi degli Altipiani del Gran Sasso, cresce in condizioni climatiche estreme dove è impossibile si sviluppino organismi nocivi alla pianta e, per questo, la coltivazione avviene sempre al naturale, senza ricorrere a pesticidi e altri prodotti chimici di sintesi.
Le sue dimensioni sono particolarmente ridotte rispetto alle “cugine” tradizionali ed il colore fa virare il marroncino verso il violaceo su una superficie striata e rugosa. Poco grassa ma molto proteica, è amata per il fatto che si cucina in soli 20 minuti e senza dover essere messa in ammollo; piuttosto fast per essere uno slow food!
Il sapore?
Intenso, aromatico, croccante e incredibilmente persistente anche dopo la lunga conservazione. Motivo per il quale viene scelta dagli chef stellati abruzzesi – e non solo – per tantissime ricette creative, anche se la tradizione tramanda da secoli soltanto quella della zuppa.
La ricetta tradizionale – Gli ingredienti (per 4 persone) per preparare la tradizionale zuppa di lenticchie di Santo Stefano di Sessanio sono:
- 250 grammi di lenticchie;
- 2 cucchiai di olio EVO;
- 2 foglie d’alloro;
- 1 spicchio d’aglio;
- sale e pepe q.b.
I legumi vanno lavati e versati in un tegame di terracotta, dove vengono mescolati a olio, alloro e aglio e ricoperti di acqua fino a 4 dita. Si cuoce, poi, tutto a fuoco lento per circa 20-30 minuti, si aggiungono sale e pepe e si lascia riposare.
Molti abruzzesi servono questa zuppa con fragranti tocchetti di pane fritto.
Le lenticchie di Santo Stefano di Sessanio, comunque, sono molto apprezzate anche abbinate ai formati di pasta artigianale abruzzese, come le Sagne o i Tacconi.