L’ergastolo “ostativo” alla prova della Consulta

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Aula di giustizia vuota, come la vogliono i potenti
Aula di giustizia vuota

L’ergastolo “ostativo” che nega benefici come i permessi premio, specialmente per mafiosi e terroristi che non hanno voluto collaborare con la giustizia, viola o no la Costituzione?

È la domanda a cui dovranno rispondere, in sostanza, i giudici della Corte costituzionale che oggi, in udienza pubblica, affronteranno questo tema lacerante e divisivo. È un’udienza che cade dopo la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che ha respinto, appena l’8 ottobre scorso, il ricorso del governo italiano, con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, contro “l’invito” della stessa Cedu a modificare questo “divieto inumano”. La prima pronuncia della Cedu, contro la quale si è schierato il governo italiano, è del giugno scorso, quando ha accolto il ricorso del boss ergastolano Viola.

Dunque, è normale che ci si chieda se questo giudizio di Strasburgo peserà sulla Consulta presieduta da Giorgio Lattanzi, alto giudice della Cassazione, giurista noto per le sue posizioni sul carcere e l’importanza della finalità rieducativa della pena. Non è un caso che la Corte costituzionale con la sua presidenza abbia deciso di andare nelle carceri per parlare della nostra Carta ai detenuti.

È innanzitutto per un’ordinanza della Cassazione del dicembre 2018 che la Consulta si dovrà pronunciare. Nicolò Zanon il giudice relatore, nominato dal presidente Napolitano nel 2014. A difendere la legge e a sostenere che non viola alcun principio della Costituzione, neppure quello del fine rieducativo della pena, dato che l’obbligo della collaborazione della giustizia per avere benefici è dovuto a peculiari pericolosità di realtà criminali italiane, ci saranno gli avvocati dello Stato Marco Corsini e Maurizio Greco, i quali contesteranno anche la sentenza della Cedu.

L’ordinanza della Cassazione finita in Corte riguarda l’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, condannato per omicidio e occultamento di cadavere con l’aggravante del metodo mafioso. Il suo avvocato, Valerio Vianello, ha fatto ricorso in Cassazione contro il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila che ha negato un permesso premio, dato che Cannizzaro non ha collaborato con la giustizia. È la condizione obbligatoria, come dimostrazione tangibile di aver reciso il legame con la criminalità organizzata di cui un ergastolano ha fatto parte o ha sostenuto. Ma secondo la difesa, il 4 bis dell’ordinamento penitenziario violerebbe la Costituzione. Una questione che la Cassazione ha ritenuto fondata e girato alla Consulta. Poiché per ottenere dei benefici è obbligatoria la collaborazione, la disciplina sarebbe “in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno”. Sarebbe pure “irragionevole” perché “assimilerebbe condotte delittuose diverse tra loro, equiparando gli affiliati all’associazione mafiosa agli estranei responsabili soltanto di delitti comuni, aggravati dal metodo mafioso o dall’agevolazione mafiosa”.

In udienza pubblica, oggi, si discuterà anche di un’altra ordinanza, del maggio scorso, analoga a quella della Cassazione. È del Tribunale di Sorveglianza di Perugia che aveva ricevuto la richiesta di un permesso premio per l’ergastolano Pietro Pavone, anche lui condannato per reati connessi al 416 bis. Per i giudici umbri, legare la collaborazione con la giustizia alla prova del venir meno della pericolosità sociale del condannato impedirebbe alla magistratura di valutare nel concreto l’evoluzione personale dell’ergastolano, “vanificando la finalità rieducativa della pena”.

Non si sa ancora se la sentenza arriverà oggi stesso.

di Antonella Mascali da Il Fatto Quotidiano