L’esercito dei giovani italiani, non italiani

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«Adesso possono votare anche i negri». Antonella Inkumsah, 20 anni, nata in Italia da genitori ghanesi, l’ha udito appena entrata nel seggio del suo quartiere, ad Arzignano, per votare il nuovo governo, a marzo dello scorso anno. Aveva da poco ottenuto la cittadinana italiana. Oggi vive ad Altavilla con la famiglia, dove di giorno studia e la sera lavora come cameriera in pizzeria. «Mi sono sentita morire, volevo andare via, uscire da quella stanza – racconta -. Ma poi, riflettendoci, ho capito che è una questione culturale. Per le persone anziane – il commento poco elegante è partito proprio da un anziano -, è più difficile accettare che nel nostro Paese abitino persone di altre nazionalità e altri “colori”. Tra coetanei è tutto diverso».

Il “caso” di Rami Shehata, il ragazzino di 13 anni di origini egiziane che, a Crema, ha contribuito a salvare 51 ragazzini messi in pericolo dal sequestratore dell’autobus, ha suscitato emozioni nell’opinione pubblica e ha riportato d’attualità il tema del riconoscimento della cittadinanza italiana ai minorenni residenti nel nostro Paese.

Per l’attuale legge italiana un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento ha risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”. I minorenni stranieri acquisiscono la cittadinanza anche “attraverso” il genitore che diventa italiano dopo 10 anni di residenza continuativa. Questo ha portato alla formazione di un esercito di bambini e ragazzi nati in Italia con le nostre abitudini, i nostri accenti, lo stesso stile di vita, ma legalmente non italiani.

Nel 2017 le cose stavano per cambiare: il Senato non ebbe il numero legale per votare lo ius soli temperato e lo ius culturae che, nel 2015, erano invece “passati” alla Camera (si sapeva che il Parlamento sarebbe stato sciolto di lì a pochi giorni per consentire le elezioni politiche il 4 marzo successivo e fu subito chiaro che il destino di quella legge era segnato).

Antonella Inkumsah, 20 anni, di origini ghanesi, ha da poco ottenuto la cittadinanza italiana

Per ius soli, in latino “diritto del suolo”, si intende l’acquisizione della cittadinanza di un dato paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. La versione “temperata” prevede invece che un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni. Lo ius culturae passa, invece, attraverso il sistema scolastico. In questo caso, potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie).

Due anni fa, nel Vicentino, era circa 20mila i candidati allo ius soli temperato e allo ius culturae, 97mila in Veneto e circa 800mila in Italia. «Parliamo di bambini, ragazzi che hanno sempre o quasi sempre vissuto nel nostro territorio – dice padre Michele De Salvia, direttore di Migrantes -. Studiano, sono integrati, si comportano esattamente come i ‘nostri’ ragazzi, loro coetanei e, soprattutto, si sentono a tutti gli effetti italiani. Non è una questione di “pezzo carta” o passaporto ma di principio, di dignità e diritto». Avere la cittadinanza o meno facilita l’acquisizione di alcuni diritti e percorsi, legati al mondo dello studio, del lavoro, dello sport. «Per le gite scolastiche era sempre un stress – racconta Antonella -. Non avere i documenti e richiedere sempre ‘permessi’ mi faceva sentire a disagio. Mi sentivo strana». Un’altra strada sbarrata, ad esempio, è quella dei concorsi pubblici o di competizione sportive all’estero. «Ho conosciuto ragazzi che alla domanda “di che nazionalità sei?” si sentono imbarazzati» racconta De Salvia. «Durante una celebrazione – continua il religioso – ho presentato una famiglia ucraina. ‘Mia figlia è anche italiana’ mi ha corretto il padre, nonostante la piccola non avesse ancora ottenuto la cittadinanza». «Sono Filippino, ma anche italiano» afferma Antonhy, 23 anni, nato in provincia di Vicenza. «La prima grossa contraddizione è proprio la percezione che questi ragazzi hanno di se stessi, che non coincide con il loro status giuridico. Allo ius soli rigido, io preferisco quello ‘temperato’ – puntualizza De Salvia -. Se non sono nato in Italia, ma sono arrivato a pochi mesi di vita, perché non posso comunque ottenere la cittadinanza? Il bimbo vivrebbe la stessa sofferenza che patiscono oggi i nostri ragazzi stranieri». «Lo Ius soli rigido forse non è aupsicabile anche per tutti gli stranieri che sbarcano qui: se nasce un bimbo vogliono subito la cittadinanza. Con lo ius soli temperato e ius culture questa “accusa” non avrebbe senso. Gli elementi della proposta coinvolgono persone già integrate. Tutto è megliorabile, credo però che queste siano due buone soluzioni».

Per padre De Salvia c’è un’altra grossa contraddizione e riguarda lo ius sanguinis (diritto di sangue), legge valida oggi in Italia: «Se concedo la cittadinanza alla terza, quarta generazione per esempio cresciuta in Brasile ma con avi italiani (naturalizzazione), perché non posso concederla a una bimbanata e cresciuta qui?». Rami diventerà cittadino italiano, l’ha detto il vice premier Matteo Salvini che all’inizio era scettico. «La cittadinanza non è un regalo che ti faccio perché sei bravo, ma è un diritto – continua il direttore di Migrantes -. Far passare un diritto per un regalo non è corretto, è discriminatorio nei confronti degli altri. Questo significa che con la stessa “facilità” con cui te l’ho donata, posso anche togliertela, e non mi sembra un modo di agire intelligente». E poi, se la cittadinanza italiana verrà concessa a Rami, perché allora non darla anche ad Adam El Hamami, l’altro ragazzino che ha contribuito a dare l’allarme avendo il coraggio di chiamare la mamma?E con lui a tanti altri?

Se ci fossero la volontà politica e i numeri in Parlamento, basterebbe ripartire da quell’onesto punto di mediazione, rappresentato dalla legge affondata nella passata legislatura. Ma il premier Conte ha già spento ogni speranza: «L’argomento non è nel contratto di governo».