Che cosa spinge Enrico Letta a lasciare la guida di una delle università più prestigiose del mondo per fare il segretario del Pd? Per capirlo bisogna tornare all’autunno del 1980, precisamente a Pisa. Chi vive intorno alla politica è certo che venga dal Quirinale la chiamata alle armi. La crisi del Pd, vista dal Colle, è un’emergenza nazionale: se non risolta minaccerebbe lo stesso governo Draghi.
Serve un’idea. Quelli che sette anni fa l’hanno cacciato, adesso – dimostrata la propria incapacità di averne – la chiedono a Letta che nel frattempo ha studiato. Sperando che l’idea sia dentro di lui. Tutto gira intorno alla domanda tormentone di questi giorni: chi glielo fa fare? Che cosa spinge Enrico Letta a lasciare la guida di una delle università più prestigiose del mondo per fare il segretario del Pd? E poi, proprio al posto di Nicola Zingaretti, quello che se n’è andato dichiarando di vergognarsi dei mediocri satrapi correntocrati dai quali Letta si è fatto incoronare? Perché ficcarsi in un casino dagli scarsi benefici e dagli esiti più che incerti? In politica non c’è niente di inspiegabile. Tutt’al più accade, e nell’Italia in declino sempre più spesso, che sia la psiche dei protagonisti, sballata dal narcisismo, a dettare mosse sconclusionate. Ma non sembra il caso di Letta, perciò chi pensa che sia impazzito può smettere di leggere.
La sua scelta ha due spiegazioni, non alternative ma complementari: perché nessuna delle due sarebbe stata sufficiente a smuoverlo da Parigi.
PISA, LICEO CLASSICO GALILEI
Per trovare la prima spiegazione bisogna azionare la macchina del tempo e tornare all’autunno del 1980, precisamente a Pisa. In via Benedetto Croce c’è l’unico liceo classico della città, il Galileo Galilei, dove il giovane Letta, che ha appena compiuto 14 anni, entra in IV ginnasio.
In men che non si dica e con naturalezza diventa il leader di Alternativa democratica, la formazione studentesca che fa riferimento alla Democrazia cristiana. Chiunque vada o sia andato a scuola sa che alle superiori quelli degli ultimi anni, già maggiorenni, sono i leader e ai ragazzini delle prime classi manco rivolgono la parola.
Al Galilei il capo di Alternativa democratica, fino a un anno prima, era Stefano Ceccanti (oggi costituzionalista e deputato del Pd), uscito di scena dopo la maturità. Ma Ceccanti quando faceva il ginnasio ascoltava in silenzio il leader del momento, Enrico Prodi (nipote di Romano) che Alternativa democratica al Galilei l’aveva fondata nel 1974, in occasione delle prime elezioni studentesche, quelle dei cosiddetti e mitici decreti delegati.
Ma Letta a 14 anni ha già una marcia in più e glielo riconoscono anche gli avversari politici, i giovani comunisti. Un po’ perché fin dalle medie i compagni dicono che Enrico studia da presidente del consiglio. Ma soprattutto perché i cattolici dispongono di un’arma che ai comunisti manca. Attraverso il Movimento studentesco dell’Azione cattolica, che si intreccia con la formidabile rete delle parrocchie, la formazione politica dei giovani comincia già negli anni delle medie inferiori.
E Pisa, città allora molto rossa (oggi leghista), dà ai ragazzi democristiani in un paese in cui il loro partito rappresenta il potere per antonomasia, l’occasione di crescere combattendo da minoranza.
In quel gruppo ci sono anche Franco Gabrielli (poi capo della polizia e oggi sottosegretario con delega ai servizi segreti), che viene da Massa ma studia giurisprudenza all’università di Pisa, e Simone Guerrini, oggi capo della segreteria di Sergio Mattarella al Quirinale, che nello stesso edificio di via Benedetto Croce fa lo scientifico.
Ricorda Ceccanti: «Quando io ed altri siamo arrivati al liceo, nel 1975, la situazione era piuttosto polarizzata. Il Comitato Autonomo copriva dalla Fgci (giovani comunisti, ndr) fino a tutte le frange della sinistra. Alternativa Democratica copriva l’area moderata, con una forte componente liberale di centrodestra. Uno schema da 1948». Però a parti invertite, con la sinistra che domina la politica studentesca.
I giovani democristiani si battono per risalire la china, entusiasmati dalla nuova stagione iniziata a Roma dalla segreteria del moroteo Benigno Zaccagnini, diventato popolare con un soprannome che oggi suona démodé, “l’onesto Zac”. Impongono all’ala liberale di Alternativa democratica, e oppongono all’area comunista, la propria anima “popolare”.
A Roma apprezzano. Ceccanti sbarca nella capitale come presidente della Fuci (la federazione degli universitari cattolici), Luisa Prodi (sorella di Enrico) diventa segretaria nazionale del Movimento studentesco dell’Azione cattolica. Ma chi salta più in alto di tutti è Guerrini.
Nel 1986 diventa leader nazionale del Movimento giovanile Dc e si porta a Roma come braccio destro il ventenne Letta che ha qualche anno meno di lui.
EFFETTO MATTARELLA
La prima spiegazione dell’apparente follia di Letta è dunque nella sua personalità doppia, capace di volare alto o altissimo con l’impegno accademico, con il profilo da tecnico e da uomo inserito a pieno titolo nell’establishment, non come Matteo Renzi che riesce a farsi ammettere solo da sottomesso, come a Riad. E però ancora prigioniero della “passionaccia” che lo ha catturato sui banchi del liceo: «La politica ce l’ho nel cuore», ammette.
Eppure la storia della passione politica da sola non basta. Il 7 marzo scorso la sua prima reazione agli inviti a fare il segretario del Pd è stata tranchant, come dicono a Parigi: «Faccio un’altra vita e un altro mestiere». Che cosa lo ha indotto a cambiare idea in pochi giorni? Chi lo ha convinto a fare il carpiato da “faccio un’altra vita” a “la politica ce l’ho nel cuore”?
Letta è uno dei politici più riservati della politica italiana, uno dei pochissimi che non è mai caduto nella tentazione di rivelare colloqui o messaggini per mettere in imbarazzo un avversario politico. Eppure, se solo si pensa a come il suo partito l’ha fatto fuori a tradimento da palazzo Chigi il 13 febbraio di sette anni fa, si capisce che il suo telefonino ne avrebbe tante da raccontare.
La cifra di Letta è in una frase distillata per Renzi che continuava a stuzzicarlo anche dopo averlo fatto fuori in modo irridente (#enricostaisereno): “Sono convinto che il silenzio esprima meglio il disgusto e mantenga meglio le distanze”. (Per dovere di cronaca va riferito che qualcuno nel Pd ha velenosamente giudicato l’algido distacco di Letta una forma di “nicodemismo”).
Nicodemo era il fariseo che nel vangelo secondo Giovanni (Gv 3, 1-21) andava a prostrarsi da Gesù solo di notte avendo paura di farlo alla luce del sole. Secondo questa scuola di pensiero Letta si è sottratto all’opposizione interna a Renzi, fino a votare sì al referendum sulla riforma costituzionale).
Nel suo libro Titanic (PaperFirst, 2019), Chiara Geloni, altra ex democristiana toscana, oggi portavoce di Pier Luigi Bersani, nota che Letta quelle parole sul disgusto le prende in prestito da Sergio Mattarella. Il suo rapporto con il presidente della Repubblica risale alla comune appartenenza alla corrente morotea della Dc.
Quando Letta diventa a 32 anni il più giovane (fino a quel momento) ministro della storia repubblicana (governo D’Alema, 1998), a giurare al suo fianco c’è Mattarella come vicepresidente del consiglio. E dunque, anche se non lo sapremo mai, tutti quelli che vivono intorno alla politica sono certi che venga dal Quirinale la chiamata alle armi per il professore di Parigi. E questa è la seconda spiegazione che, sommandosi alla prima, fa il totale. La crisi del Pd, vista dal Colle, è un’emergenza nazionale.
Le stralunate dimissioni di Zingaretti arrivano a meno di un mese dalla nascita di un governo anomalo con cui Mattarella ha dettato al parlamento la risposta a una crisi resa drammatica dalla pandemia.
Considerando lo sfacelo dei Cinquestelle, il governo Draghi si trova con le due ruote di sinistra sgonfie e rischia di sbandare a destra per poi finire fuori strada. La posta in gioco è altissima e dare una guida forte al Pd è considerata condizione essenziale per la stabilità dell’esecutivo, quindi del paese.
L’UOMO CHE SAPEVA LE LINGUE
Perché Letta è considerato forte? Dal punto di vista strettamente politico non è mai stato un trascinatore. Quando ha sfidato Walter Veltroni alle primarie fondative del Pd, nel 2007, ha preso l’11 per cento dei voti, battuto anche da Rosy Bindi. E quando Renzi ha deciso di sfrattarlo da palazzo Chigi, l’unico del Pd che l’ha difeso – a parte una sparuta pattuglia di lettiani provvisori – è stato Pippo Civati.
Quel giorno anche la paterna benevolenza di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che l’aveva mandato a palazzo Chigi, si è rivelata provvisoria. Ma è proprio dopo quella cocente umiliazione che Letta ha sfoderato la sua arma migliore, che non è certo la destrezza nelle manovre di corridoio.
Qui serve nuovamente la macchina del tempo. Negli anni ’70, quando Enrico fa le elementari, suo padre Giorgio Letta (fratello di Gianni), matematico, si trasferisce a insegnare per qualche anno all’università di Strasburgo.
Enrico va scuola in Francia e impara perfettamente il francese. Per inciso, il professor Letta, oggi 84enne, insegnava calcolo delle probabilità, la competenza più utile per accompagnare con paterni consigli la nuova avventura politica di Enrico.
Saltiamo adesso al 1991 quando Letta, 26enne, si trova proiettato alla presidenza dei giovani democristiani europei. Racconta un testimone che per la Dc fu una scelta obbligata: era l’unico che sapeva le lingue. La tradizione politica italiana guarda con sufficienza agli incarichi internazionali perché non danno dividendi immediati in termini di potere, cioè nella spartizione delle poltrone.
E’ un’idea miope e provinciale, contraddetta dai fatti. Enrico Berlinguer ha costruito la sua carriera politica sui quattro anni di presidenza della gioventù comunista mondiale, che gli hanno dato relazioni e visione internazionale grazie alle quali fu poi preferito a Giorgio Napolitano (considerato troppo provinciale) per la successione al segretario del Pci Luigi Longo.
Per Letta vale la stessa cosa. Nel 2014, sei mesi dopo la cacciata da palazzo Chigi, il presidente uscente del Consiglio europeo, il belga Herman Van Rompuy, avanza per la sua successione proprio la candidatura di Letta, suo amico dai tempi della gioventù democristiana.
Il Consiglio europeo è la conferenza dei capi di governo, in sostanza l’organismo decisivo dell’Unione europea. Sono tutti d’accordo che sia Letta a presiederlo, da Angela Merkel al presidente francese François Hollande. Van Rompuy arriva a Roma credendo di portare una bella notizia al premier italiano.
Renzi lo fulmina: «Non mi farò mai presiedere da Letta». Avere l’appoggio dei maggiori partner europei ed essere stoppato dal tuo paese è una beffa che ci fa ridere dietro. Ma i Renzi passano, il prestigio internazionale resta.
IL MODELLO ANDREATTA
Questa scala delle priorità Letta l’ha imparata dal suo vero maestro, Beniamino “Nino” Andreatta, un gigante anomalo della politica italiana di cui l’allievo replica il modello con affetto filiale.
Economista di notevole livello (Romano Prodi è il più noto dei suoi allievi), Andreatta è uno dei pochissimi politici italiani a essersi sempre tenuto in perfetto equilibrio tra la militanza (a lungo parlamentare e più volte ministro, moroteo come Mattarella) e l’impegno culturale.
La sua roccaforte è l’Arel, un centro studi fondato nel 1976 e tuttora in piena attività. Ne è segretario generale Letta, che ci lavora dal 1990.
RELAZIONI INTERNAZIONALI
Nel 1993 Andreatta diventa ministro degli Esteri nel governo Ciampi e se lo porta dietro come capo di gabinetto. In seguito Letta va a fare il segretario generale del Comitato Euro al ministero del Tesoro, lavorando a fianco del direttore generale Mario Draghi.
Poi torna alla politica: vice-segretario del Ppi, ministro, parlamentare italiano ed europeo, sottosegretario alla presidenza del consiglio con Prodi nel 2006, vice-segretario del Pd con Bersani, fino alla conquista di palazzo Chigi e alla disfatta dopo dieci mesi.
Dopo la sconfitta Letta torna al registro alto imparato da Andreatta. Nel settembre 2015 diventa preside della scuola di affari internazionali dell’università parigina SciencesPo e costruisce una storia di successo internazionale.
In cinque anni porta il suo istituto dal tredicesimo al secondo posto nella classifica Qs delle migliori università mondiali di affari internazionali, con la sola Harvard davanti. Attira 1.500 studenti provenienti da 110 paesi diversi, fa lezione e sessioni d’esame, ma soprattutto coltiva una rete di relazioni internazionali strepitosa.
Vanno a tenere lezioni e conferenze per gli studenti di Letta l’economista nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala, da poco direttrice dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’americano Bill Burns, appena scelto dal presidente Joe Biden come capo della Cia, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.
L’importanza di queste relazioni non consiste tanto nei piccoli o grandi favori che uno può chiedere in giro, quanto nelle cose che uno sveglio può imparare confrontandosi con persone di questo livello anziché con politicanti illetterati. Ed è probabilmente quello che pensa veramente Letta quando dice di sentirsi oggi una persona diversa da quella che fu pugnalata da Renzi.
Adesso viene la sfida più difficile: tradurre l’autorevolezza culturale in moneta spendibile su un mercato politico che in questi sette anni è molto cambiato. Letta, suo malgrado, ha consolidato anche la sua immagine di uomo più a suo agio con i consigli d’amministrazione che con con i consigli di fabbrica. E’ vero che l’onda populista è in calo, ma anche le ricette antipopuliste sono invecchiate.
Dieci anni fa Letta chiedeva al Pd il coraggio di andare a caccia del voto moderato, cioè di quelli che votavano per Berlusconi.
Oggi quel ceto medio di professionisti e piccoli imprenditori è indebolito e tende a saldarsi con la rabbia dei nuovi poveri.
La lunga crisi economica iniziata nel 2008, aggravata in modo pesantissimo dalla pandemia, ha incarognito la società italiana e ormai – paradossalmente – il voto moderato è quello del Pd, mentre volano nei sondaggi le formazioni della destra sovranista, xenofoba e fascista. L’elettorato di sinistra, se non è diventato leghista, sceglie l’astensione.
LA RISPOSTA È DENTRO DI LUI
Non è detto che al Pd, da tempo alla ricerca delle sue radici laburiste e di sinistra, possa bastare il ritorno al modello dell’Ulivo di Prodi, figlio di un’epoca in cui l’economia ancora teneva e quindi consentiva di contrapporre agli strappi mercatisti e padronali di Berlusconi una proposta rasserenante, irenica, di pura manutenzione dell’armonia sociale.
Serve un’idea. Quelli che sette anni fa l’hanno cacciato, adesso – dimostrata la propria incapacità di averne – la chiedono a Letta che nel frattempo ha studiato. Sperando che l’idea sia dentro di lui. E non sia quella sbagliata.
Giorgio Meletti su Domani