Prima Comunicazione riporta che dopo circa un decennio di onorato servizio Matteo Arpe sembra intenzionato a chiudere Lettera43, testata online diretta dal vicentino Paolo Madron. La notizia riportata dal quotidiano Italia Oggi ha suscitato l’immediata reazione del Cdr che in una nota che riportiamo di seguito
La redazione di Lettera43.it esprime incredulità e sgomento per l’articolo comparso il 2 aprile su ItaliaOggi che annuncia la possibile imminente cessazione delle pubblicazioni del quotidiano online, uno stop che sarebbe previsto in «una ventina di giorni, un mese circa», per via del «progressivo esaurimento delle risorse finanziarie messe a disposizione dall’editore Matteo Arpe».
I lavoratori hanno dovuto quindi apprendere la notizia soltanto da un altro giornale e non dall’azienda, a cui erano state chieste delucidazioni sul futuro tramite una comunicazione scritta nella quale si domandava espressamente quale fosse lo stato della liquidità e quali fossero i piani della società per garantire una continuità editoriale in un momento difficile per i conti, assicurando un futuro ai giornalisti. Ma né l’amministratore delegato Giorgio Gabrielli né il direttore Paolo Madron si sono degnati di rispondere ufficialmente ai quesiti sollevati, lasciando che le informazioni arrivassero ai dipendenti per vie traverse.
Nell’articolo, mai smentito e poi addirittura sostanzialmente confermato dall’azienda nei suoi contenuti, si parla pure di una parallela chance di cessione di Lettera43.it, anche se sono presenti diverse inesattezze: l’amministratore delegato non è già uscito, ma è in uscita; la cassa integrazione biennale presentata a febbraio per riorganizzazione aziendale e che avrebbe coinvolto otto giornalisti non è stata già avviata, bensì è ancora in attesa di approvazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; l’organico non comprende solo otto giornalisti, ma 13: otto sono quelli inquadrati con contratto articolo 1, cinque quelli con articolo 2.
E pensare che, quando solo nel gennaio del 2020 la redazione aveva manifestato preoccupazione per la sopravvivenza delle testate Lettera43.it e LetteraDonna.it paventando il fatto che venissero smantellate o chiuse, l’azienda aveva risposto di «non condividere le conseguenze adombrate sul futuro della casa editrice, che non ha alcuna intenzione di chiudere». Si è visto: LetteraDonna.it è stata messa offline assieme al suo archivio di articoli quasi decennale che la redazione continua a chiedere fermamente di ripristinare perché contiene il lavoro e la carriera giornalistica di diversi colleghi, mentre Lettera43.it è ora giunta a un passo dallo stop delle pubblicazioni.
L’azienda, in questa situazione precaria, il primo aprile 2020 ha avanzato anche la richiesta di cassa integrazione in deroga dovuta all’eccezionale situazione del coronavirus. Una scelta però illegittima ed eticamente censurabile, giustificata con la «riduzione dell’attività lavorativa dovuta all’emergenza sanitaria in corso». Ma la realtà è esattamente all’opposto: il lavoro – svolto in smart working – nel mese di marzo non si è interrotto, come capitato a diverse imprese italiane in difficoltà, anzi è aumentato proprio per la mole di notizie sul Covid-19, che il giornale è impegnato a trattare occupandosi prevalentemente di cronaca, politica ed economia. I clic e il traffico online, non a caso, sono raddoppiati.
Semmai allo sforzo profuso dai giornalisti e ai risultati ottenuti non è corrisposto un adeguato impegno del marketing e del management per valorizzarne il lavoro, con la paradossale conseguenza della richiesta di una cassa integrazione che riguarda solo i dipendenti giornalisti e non gli altri impiegati della società. Senza considerare che il servizio di informazione pubblica dovrebbe essere ritenuto in questo momento attività di primaria necessità.
L’emergenza coronavirus tra l’altro era coincisa col richiamo al lavoro, tramite un solo giorno lavorativo di preavviso, di tutti i giornalisti che erano stati messi in smaltimento forzato delle ferie in attesa dell’avvento della precedente Cigs non ancora concessa dal ministero. Ora lo schema si è ripetuto: con un solo giorno di preavviso l’azienda aveva annunciato – tramite il cdr e senza nemmeno una comunicazione scritta ai singoli giornalisti – l’avvento della nuova organizzazione dovuta alla Cig in deroga (prima ancora che questa venga concessa) che prevede per 9 settimane la rotazione degli otto dipendenti art.1 e la rotazione a zero ore dei cinque art.2, cioè l’intero corpo redazionale, con un impiego di soli due lavoratori al giorno a occuparsi del giornale, che sarebbe così snaturato e distrutto.
Le modalità e le tempistiche ancora una volta hanno dimostrato l’assoluta mancanza di rispetto per il lavoro e per la vita dei redattori coinvolti, anche se poi l’azienda ha fatto una parziale retromarcia chiedendo ai sindacati un incontro prima di far scattare il riassetto dei giornalisti, chiamati alla rotazione senza alcuna garanzia di pagamento degli stipendi. E col rischio che, al termine delle nove settimane, la società possa comunque ricorrere ai licenziamenti ora momentaneamente bloccati dal decreto Cura Italia, nonostante la dirigenza solo pochi giorni prima avesse assicurato liquidità almeno per il mese di aprile. Ma poi è arrivata “l’eutanasia” annunciata da un articolo di giornale mentre sono ancora aperti i tavoli di due diverse richieste di cassa integrazione. Una fine senza dignità, ma in pieno stile aziendale, che Lettera43.it e i suoi lavoratori non meritavano.
La redazione di Lettera43.it
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