L’Europa e la selezione della classe politica in osteria: “Merde alors!”

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Suonano sinistre le parole di Giovanni Paolo II che rimproverava ai governanti del vecchio continente la scarsa ambizione nel progetto “Europa“. Con molta probabilità sua Santità avrebbe preferito un’unione politica di tutti i paesi della comune matrice cristiana, ma il suo sogno, e quello di Spinelli, Adenauer e Schuman, in mano ai commissari europei è diventato ingiusto, asfittico e dannoso, un’estensione delle banche e della finanza. Già all’epoca dell’ingresso inglese nel Mercato Comune, dopo che sfilarono trionfali le cifre delle economie riunite, si ammise che l’Europa così com’era concepita era di certo un gigante economico, ma un nano politico e un pidocchio militare.


Ad esempio, uno dei progetti comuni, quello della difesa europea, non è mai decollato, siccome ogni paese è restato geloso del suo esercito e dell’autonomia delle sue politiche nazionali di difesa.

I miei viaggi giovanili, spesso a piedi e con lo zaino, mi portarono a girovagare a metà degli anni ’70 anche in Lussemburgo, dove registrai l’estremo provincialismo dei suoi abitanti che, sebbene al centro dell’Europa, mancavano di un particolare orgoglio nazionale e avevano una cultura e una visione politica nel migliore dei casi tributaria delle nazioni vicine. Soggiornai in uno dei minutissimi centri del granducato, Burmerange, da cui, continuando per un paio di chilometri la strada in discesa verso il confine tedesco, si arrivava in faccia ai vigneti della Moselle, a Schengen, nel piccolo centro dove hanno concepito buona parte dell’attuale disastro europeo.

Dall’altra parte, a Steinfort, paesino di lingua francese alla frontiera col Belgio, abitava l’operaio Jean Asselborn, attuale ministro degli Esteri del Lussemburgo. A pochi chilometri da lui, nasceva un altro astro ubriaco della politica, Jean-Claude Juncker, famoso per aver offerto al mondo, e a più riprese, il più penoso spettacolo dei nostri vertici istituzionali. Questi fenomeni del pensiero politico, già servi delle banche del loro paese (la cui consistenza è molta parte dell’economia del granducato), sono stati poi i più devoti servitori della finanza europea, e hanno dimenticato gli interessi della gente.

Se questa volta mi tocca persino parteggiare per Salvini, vuol dire che Jean Asselborn l’ha fatta proprio fuori dal vaso, vuol dire che così concepita, l’Europa, può darci solo fastidio. La difesa comune, le frontiere comuni, la comune politica, sono solo un comune miraggio dei popoli europei, che stanno svegliandosi da quell’incubo nato con i trattati di Schengen e proseguito con la convenzione di Dublino. I partiti al governo giallo-verde si vuole bollarli come populisti, e in parte lo sono, se si considera la firma della Lega sui quei patti. Ma l’interruzione tronfia del lussemburgese, che esordisce con un cialtrone “Alé, alé alé…” e finisce con un indecente “Merde alors!“, farfugliando la motivazione che di italiani in Lussemburgo ce ne sono a migliaia per permettere a noi in Italia di avere soldi per i nostri figli, questo è insopportabile. Vuol dire che la democrazia del Granducato non è in grado di selezionare una classe dirigente che vada al di là delle considerazioni attorno al bicchiere di moselle.

Nel villaggio che orgogliosamente gli abitanti avevano chiamato Italien, è vero, connazionali ce n’erano tanti. Erano tutti friulani là. E la ragazza che mi offrì da dormire, mi regalò anche una colazione attorno ad un tavolo dove stavano tre generazioni che parlavano un incomprensibile dialetto germanico, passate prima per la polvere delle miniere e poi riciclatesi in altri lavori quando quelle furono chiuse. In fondo c’era il più anziano, era nato in Italia, dicevano gli altri, e ne ricordava persino la lingua. Invece, quando da sotto i grandi baffi bianchi mi chiese da dove venissi, non riuscivo manco a capirlo. Tentai più volte, e alla fine semplificai… “Napui?” mi rispose il vecchio. “Mi robarono la valigia, a Napui“.