L’errore, «gravissimo», secondo l’ex presidente del tribunale di Treviso Giovanni Schiavon l’ha commesso la procura del capoluogo della Marca guidata da Michele Dalla Costa. Che per mesi, «anni», ha «preferito non vedere quel che era sotto gli occhi di tutti, mettendo la polvere sotto il tappeto». Ma ora il tappeto è stato alzato «e la polvere, che nel frattempo è diventata una montagna, rischia di travolgere tutti».
Schiavon, che per un breve periodo è stato vice presidente di Veneto Banca in rappresentanza dei piccoli azionisti (il presidente era Stefano Ambrosini, 2016), dice che da tre anni va ripetendo che la competenza a giudicare gli imputati del processo sull’istituto di credito di Montebelluna non spetta ai magistrati di Roma, «che non si sa bene in base a quali norme se la siano attribuita», ma a quelli di Treviso e a suo dire l’esito della decisione del Gup della capitale, martedì, «era assolutamente scontato».
Schiavon sottolinea l’anomalia dell’incardinamento del processo a Roma («Un maligno potrebbe pensare che ci sia di mezzo lo zampino di Bankitalia ma io non voglio pensar male») e questo, spiega, «è stato il primo errore». Un secondo, però, «assai più grave», secondo il giudice in pensione è stato commesso a Treviso perché «come si può dire oggi, dopo tre anni, che si è impreparati ad affrontare l’inchiesta, che non ci sono i magistrati e neppure gli spazi? Ogni procura gode della più totale autonomia nel rivendicare la propria competenza su un’indagine, tanto è vero che procure diverse possono concentrarsi sugli stessi fatti. Treviso, invece, inspiegabilmente ha sempre rinunciato alla proprie prerogative – attacca Schiavon aderendo pedissequamente alle richieste di Roma -. Se n’è ricavata l’impressione che qui stessero facendo di tutto per non occuparsi del caso, preferendo che fossero i colleghi della capitale a farsene carico e questo nonostante ci fossero tutti gli elementi utili per capire che il processo, prima o poi, sarebbe stato riportato in Veneto. Così è stato. E ora dicono che non sono pronti. Incredibile. Ci stiamo facendo travolgere da uno tsunami annunciato».
Duro anche il commento di don Enrico Torta, dell’omonimo coordinamento che riunisce i risparmiatori delle ex popolari, che preannuncia addirittura «una rivoluzione»: «Il cambio di sede del processo è una tecnica collaudata dello Stato che, vista la collusione politico-economica, tenta di arrivare alla prescrizione. E se a questo si arrivasse, dopo quello che è un vero e proprio omicidio di Stato, sarà una rivoluzione. Lo Stato avrebbe dovuto risarcire i risparmiatori subito accollandosi il debito».
Che il rimpallo tra i tribunali possa essere «la soluzione» per chiudere questa vicenda senza individuare i responsabili di quel che è successo è convinzione anche dell’ex viceministro all’Economia, e componente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, Enrico Zanetti. Che la spiega così: «Dai lavori della commissione è emerso con chiarezza che nonostante i problemi innegabili e alcuni errori inescusabili, la vicenda di Veneto Banca non è assimilabile a quella di Banca Popolare Vicenza e Banca Etruria, specie per quel che attiene il ruolo del management e la gravità delle condotte poste in essere. Lo dice uno che, all’inizio, era convinto dell’esatto contrario. Ma dopo aver letto le carte non ho potuto che cambiare idea ed anzi, mi sono convinto che se mai si arriverà ad un processo, i vertici di Veneto Banca saranno assolti o, alla peggio per loro, condannati a pene lievissime. Il che – conclude Zanetti – aprirebbe nuovi e scomodi interrogativi, specie verso Bankitalia. Perché agì in quel modo? Perché fu tanto severa con Montebelluna? Meglio allora creare le condizioni perché tutto passi in cavalleria e mi pare che con la prescrizione si stia andando esattamente in quella direzione».
di Marco Bonet, da Il Corriere del Veneto