(Articolo su immigrazione in Unione Europea da VicenzaPiù Viva n. 12, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Dublino III, il sistema che sovraccarica le frontiere europee e alimenta la crisi migratoria.
Nell’Unione europea, la gestione delle migrazioni rappresenta da tempo una delle sfide più divisive e complesse. Il Regolamento di Dublino III è il fulcro della politica europea sull’asilo, un sistema che ha finito per sovraccaricare i Paesi di frontiera e creare profonde tensioni tra gli Stati membri. Adottato nel 2013, Dublino III stabilisce le regole per decidere quale Stato membro sia responsabile dell’esame di una domanda di protezione internazionale, cercando di prevenire movimenti irregolari di migranti e garantire una gestione ordinata delle richieste d’asilo. Tuttavia, a oltre dieci anni dalla sua entrata in vigore, le sue carenze sono evidenti e la richiesta di una riforma è sempre più pressante.
Il Regolamento di Dublino III è l’ultima evoluzione di un processo iniziato con la Convenzione di Dublino del 1990, un accordo internazionale tra gli Stati membri della Comunità europea. La convenzione era stata pensata per risolvere il problema del cosiddetto “asylum shopping”, ovvero la possibilità per i richiedenti asilo di presentare domande in diversi Paesi europei, cercando di ottenere condizioni più favorevoli. La convenzione stabiliva che la responsabilità per l’esame della domanda di asilo spettava al Paese di primo ingresso, cioè quello attraverso il quale il richiedente era entrato per la prima volta nel territorio dell’Unione.
Il Regolamento di Dublino III stabilisce una serie di criteri gerarchici per determinare quale Stato membro sia competente per l’esame di una domanda di asilo. Tuttavia, il criterio più frequentemente applicato è quello del Paese di primo ingresso. Questo significa che, se un richiedente asilo attraversa le frontiere dell’Unione europea illegalmente e arriva, ad esempio, in Italia o in Grecia, questi Paesi diventano responsabili per l’esame della sua domanda. Se il richiedente si sposta in un altro Stato membro e lì presenta una nuova domanda, può essere trasferito nel Paese di primo ingresso, in base a quanto previsto dal regolamento. Questo è proprio uno dei problemi più evidenti del Regolamento di Dublino III, che impone un carico sproporzionato sui Paesi di primo ingresso.
Gli hotspot in Grecia e Italia, dove i migranti vengono registrati e “detenuti” in attesa di trasferimento, sono stati criticati da numerose organizzazioni umanitarie per le condizioni disumane in cui versano.
Il sovraffollamento, la scarsa assistenza medica e le lunghe attese per l’esame delle domande sono solo alcune delle difficoltà che i migranti devono affrontare una volta arrivati in Europa. In alcuni casi, queste situazioni hanno spinto i migranti a protestare o cercare di fuggire dai centri di detenzione, aumentando le tensioni con le autorità locali.
In più, per i migranti, il sistema di Dublino rappresenta una trappola legale. Il principio di responsabilità basato sul Paese di primo ingresso significa che molti di loro sono costretti a rimanere in Paesi dove non intendono stabilirsi, spesso perché hanno legami familiari o opportunità migliori altrove in Europa. Quando tentano di spostarsi verso altri Stati membri, vengono considerati migranti “irregolari” e rischiano di essere detenuti e rimpatriati nel Paese di primo ingresso. Inoltre, nonostante venga prevista la possibilità di ricongiungimento familiare, la realtà è che questi processi sono lenti e complessi. Le lunghe attese e la mancanza di supporto legale rendono difficile per i migranti riunirsi con i loro familiari. Questo crea situazioni di isolamento e disagio psicologico, particolarmente gravi per i minori non accompagnati, che sono tra i più vulnerabili.
Negli ultimi anni, le pressioni per una riforma del sistema di Dublino sono aumentate, con molti Stati membri che chiedono una revisione del regolamento per renderlo più equo e sostenibile, ovviamente per i Paesi e non per i migranti stessi.
Il recente Summit del Consiglio europeo, tenutosi a Bruxelles il 17 ottobre, ha posto questo tema al centro dell’agenda politica. I leader dei Paesi membri hanno affrontato nuovamente la questione, riconoscendo che la migrazione è una sfida collettiva che richiede una risposta comune. Le conclusioni del Consiglio Europeo hanno un focus sull’attuazione di un approccio globale e una maggiore cooperazione con i Paesi di origine e di transito.
Il Consiglio ha ribadito l’importanza di un controllo più efficace delle frontiere esterne e della lotta alla migrazione irregolare, invitando a intensificare i lavori su tutte le linee d’azione definite a febbraio 2023. Tra le misure proposte, emerge la necessità di percorsi sicuri e legali per una migrazione ordinata, affiancata da un rafforzamento delle politiche di rimpatrio per i migranti che non soddisfino i requisiti per la protezione internazionale.
La presidente del Consiglio dei ministri italiano Giorgia Meloni si è esposta in modo particolare sulla questione rimpatri, rendendosi promotrice di un incontro informale tra Paesi “like minded” (che la pensano in modo uguale o simile) per sviluppare “soluzioni innovative” per la questione migratoria. Diversi Paesi hanno preso parte all’incontro, tra cui Austria, Cipro, Polonia, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Malta, Slovacchia e la stessa Commissione europea, rappresentata dalla Presidente Ursula von der Leyen.
Durante il meeting il protocollo Italia-Albania, per ora modello fallimentare o, perlomeno, controverso per i rimpatri del governo Meloni, è stato oggetto di particolare interesse da parte dei Paesi membri, con l’apprezzamento della stessa von der Leyen che in una lettera ai leader prima del summit del Consiglio ha dichiarato che la piattaforma di sbarco italiana in territorio albanese può dare “lezioni pratiche” agli altri Paesi.
La Commissione è, comunque, tornata subito sui suoi passi, a seguito dell‘intervento del tribunale di Roma che, citando la sentenza della Corte di giustizia sui cosiddetti paesi sicuri, non ha convalidato i decreti di trattenimento – citandola – non ha convalidato i decreti di trattenimento dei 12 migranti deportati in Albania (in ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che rende norma primaria l’indicazione dei Paesi sicuri per il rimpatrio, ma la questione non appare chiusa, politicamente e giudiziariamente) Meloni sembra essersi esposta anche a favore dei rimpatri dei rifugiati siriani, sostenendo per loro
la necessità di un rimpatrio sicuro, dignitoso e volontario. La premier italiana avrebbe fatto pressioni all’Unhcr per individuare aree sicure all’interno del Paese di Bashar al-Assad per consentirne il rientro, peccato che, la stessa sentenza sopracitata, definisca un Paese sicuro solo se è sicuro nella sua interezza e che l’Unhcr abbia più volte definito la Siria come paese non sicuro, a causa dei continui bombardamenti.
Senza, poi, considerare che Bashar al-Assad 10 anni fa, nel pieno della guerra, si era guadagnato il soprannome di “macellaio” da parte dell’Occidente, a causa delle stragi di civili ad opera del suo esercito.
Dieci anni sembrano aver apportato un forte cambiamento ma, forse, solo nelle coscienze europee. Il Consiglio europeo ha anche sottolineato che la migrazione non deve essere utilizzata come uno strumento politico da parte di Paesi terzi, sostenendo, quindi, la decisione del primo ministro polacco Donald Tusk di revocare temporaneamente il diritto di asilo nel Paese.
Tusk ha, infatti, accusato il presidente russo Vladimir Putin e il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko di usare i migranti come arma, spingendoli ai confini
con la Polonia per destabilizzare l’Europa, azioni che, secondo Tusk, sarebbero “contrarie allo spirito alla base del diritto di asilo”.
Il vento sta quindi cambiando in Europa e non è una notizia. La maggioranza che ha sostenuto la rielezione della presidente Ursula von der Leyen sembra avere in realtà molto meno peso di quanto previsto, con un Partito popolare europeo che tende ad allearsi con la sinistra o con l’estrema destra a secondo di temi e convenienze. Questa prospettiva e il cambio di alcuni Commissari, come il francese Breton, portano molto potere ad accentrarsi
nelle mani di von der Leyen, che potrebbe manica larga nella gestione della sua presidenza.
Se la migrazione si conferma uno dei temi su cui le istituzioni europee si scontreranno con più ferocia anche in questa nuova legislatura, resta da vedere chi ne uscirà vincitore, sperando non siano le persone con i loro diritti.